Perché la fuga di Puigdemont dalla Catalogna è convenuta a tutti (tranne che a lui)

Per la seconda volta in 7 anni il leader indipendentista, che vive in esilio, è sfuggito alla polizia, pur essendo apparso a un comizio pubblico a Barcellona. Ma secondo gli analisti non è un caso
4 mesi fa
5 minuti di lettura
Carles Puigdemont comizio Barcellona
Carles Puigdemont durante il comizio lampo a Barcellona (© credito: Paco Freire/SOPA Images/Shutterstock / ipa-agency.net / Fotogramma)

Carles Puigdemont l’ha fatto di nuovo. Per la seconda volta il leader separatista catalano, da anni al centro della spinosa questione che contrappone la prospera e orgogliosa regione al governo centrale spagnolo, è sfuggito alle maglie della polizia che lo braccava per arrestarlo. La prima volta nel 2017 per aver organizzato un contestato e illegale referendum sull’indipendenza della Catalogna, cosa per la quale è ancora ricercato; la seconda la scorsa settimana, quando, dopo averlo ampiamente annunciato, si è ripresentato a Barcellona per un’apparizione lampo a un comizio. Una comparsata che arrivava prima del voto nel parlamento regionale sull’elezione di Salvador Illa, un socialista alleato del primo ministro Pedro Sánchez, come nuovo presidente regionale della Catalogna.

Arrestare Puigdemont boomerang per il governo centrale

Dopo la seconda fuga di Puigdemont, nemmeno fosse Diabolik, sono fioccate le polemiche, con l’opposizione che l’ha definita una dimostrazione di incompetenza da parte delle autorità statali. E in effetti che 300 poliziotti schierati non siano riusciti a fermare un uomo solo (per quanto aiutato da una rete di complici) che è salito su un palco davanti a qualche migliaio di persone, parlato qualche minuto e poi scappato in macchina con tutte le telecamere puntate addosso, non è una gran bella figura.

Ma le cose ovviamente non sono mai così semplici, e il dubbio è che al governo centrale convenga un Puigdemont a piede libero piuttosto che un Puigdemont ‘martire’ in carcere. E che quindi la fuga del separatista non sia dovuta né al caso, né a sue particolari doti da escapologo, né all’incompetenza delle istituzioni. Basti pensare che Sánchez ha ancora bisogno dei voti del partito Junts di Puigdemont a Madrid per sostenere la sua risicata maggioranza, e che un arresto glieli avrebbe alienati, così come avrebbe rinfocolato tensioni e agitazioni nella regione.

Intanto il premier ha portato a casa il suo obiettivo: giovedì il parlamento catalano ha eletto Illa come nuovo presidente della Generalitat, il primo dal 2010 non indipendentista o autonomista, grazie all’accordo tra i socialisti del primo ministro e il partito separatista di sinistra ERC (Esquerra Republicana, Sinistra Repubblicana Catalana) che darà alla Catalogna l’indipendenza in materia fiscale. Il governo centrale, dunque, non riscuoterà più le tasse sul territorio catalano. Un aspetto non marginale se si pensa che la regione, che conta 8 milioni di persone, nel 2022 ha registrato un PIL pari a circa 252 miliardi di euro, circa il 19% di quello nazionale, e superiore ad esempio a quello del Portogallo, che nello stesso anno ha segnato un PIL di circa 240 miliardi di euro.

“La Catalogna vince, la Spagna va avanti”, ha detto Sánchez dopo l’insediamento di Illa.

insomma, nonostante la sua apparsa e scomparsa somigli alla sceneggiatura da film d’azione, l’arresto di Puigdemont poteva diventare un problema un po’ per tutti, rischiando di far saltare il banco, mentre anche il passare dei giorni sembra dimostrare l’ininfluenza della sua apparizione. Il leader di centro-destra, che considera l’accordo della ECR con Madrid un tradimento, puntava ad essere eletto lui presidente della Generalitat, contando di poter tornare in patria grazie ad un’amnistia negoziata col governo e approvata nelle settimane scorse dal parlamento di Madrid, ma che i giudici spagnoli non vogliono applicare del tutto a Puigdemont perché questi ha anche altri problemi giudiziari riguardanti l’uso di alcuni fondi pubblici.

Il separatista, dal canto suo, si è rifatto vivo su X confermando di essere a Waterloo, in Belgio, e precisando: “Ho già detto di non aver mai avuto la volontà di consegnarmi volontariamente o di agevolare il mio arresto perché trovo inaccettabile che io sia perseguitato per motivi politici“.

Ieri, inoltre, ha dichiarato alla stampa spagnola: “Se si vuole fare politica in condizioni normali, e io voglio farlo, bisogna applicare la legge“, riferendosi a quella sull’amnistia, che gli consentirebbe di tornare letteralmente sul campo, sul suolo catalano.

Al momento ‘vince’ Sánchez

Tirando tuttavia le somme, gli analisti osservano che Puigdemont aveva due obiettivi: ostacolare la creazione di un governo regionale di centrosinistra formato dal Partito Socialista catalano e da ERC e riportare al centro del dibattito politico la questione indipendentistica, in ribasso in seguito al percorso di normalizzazione avviato da Sánchez e basato su soluzioni autonomistiche, come ad esempio il recente accordo sul fisco.

Questi due obiettivi erano speculari a quelli di Sánchez, che puntava invece a formare in Catalogna un governo non indipendentista e contemporaneamente a non alienarsi ERC e Junts, da cui dipende, come detto, la sua risicata maggioranza di governo. Il primo ministro in ogni caso esclude fermamente la possibilità di un nuovo referendum sull’indipendenza, sostenendo che la questione debba essere risolta all’interno del quadro costituzionale spagnolo.

Al momento, dunque sembra aver vinto Sánchez.

Ma come si è arrivati a questa situazione?

Un secolo di lotta: la Catalogna e la ricerca dell’indipendenza

Per comprendere le ragioni dietro il movimento indipendentista catalano, bisogna fare un salto indietro nel tempo, fino al Medioevo. La Catalogna, con la sua lingua e cultura distintiva, ha sempre goduto di una certa autonomia, ma con l’unione dei regni di Castiglia e Aragona nel 1469 alla progressiva centralizzazione del potere a Madrid nel corso dei secoli successivi è corrisposta una progressiva riduzione dell’autonomia della regione e il crescere del suo risentimento.

Un punto di svolta si ebbe nel 1714, quando, al termine della Guerra di Successione Spagnola, la Catalogna perse le sue istituzioni e leggi: i Borbone imposero un governo centralizzato. La perdita dell’autogoverno, unita alla repressione culturale e linguistica, creò una ferita profonda nella coscienza collettiva catalana, che riuscì a sopravvivere attraverso il mantenimento delle tradizioni, della lingua e della letteratura.

Nel 1932, la Catalogna ottenne uno statuto di autonomia, che fu revocato con la vittoria del generale Francisco Franco nella guerra civile spagnola. Durante il regime franchista, la lingua catalana fu bandita dalle istituzioni pubbliche e dalla vita quotidiana, e ogni forma di dissenso punita severamente.

Con la morte di Franco nel 1975 e la transizione alla democrazia, la nuova costituzione spagnola del 1978 riconosceva la Catalogna come una “nazionalità” e le concedeva ampi poteri legislativi, esecutivi e finanziari. La regione inoltre nel 1979 ottenne nuovamente uno statuto di autonomia e autogoverno.

Tuttavia, le tensioni col governo centrale riaffiorarono periodicamente negli anni, per acquisire nuovo slancio all’inizio del XXI secolo, in parte a causa della crisi economica del 2008 e delle politiche di austerità imposte da Madrid.

Il 1° ottobre 2017 la Catalogna tenne un referendum, ufficialmente considerato vincolante dal governo regionale, nonostante il divieto della Corte Costituzionale spagnola e la ferma contrarietà del governo spagnolo, guidato da Mariano Rajoy, che affermò con chiarezza l’illegalità di qualsiasi tentativo di secessione.

Il voto, segnato da scontri violenti tra la polizia spagnola e i cittadini catalani, restituì una maggioranza a favore dell’indipendenza, ma con una partecipazione inferiore al 50%. Il 27 ottobre 2017, il Parlamento catalano dichiarò unilateralmente l’indipendenza, portando il governo spagnolo ad applicare l’articolo 155 della Costituzione, a sospendere l’autonomia catalana e a destituire l’intero governo regionale.

Carles Puigdemont, a quel punto ex-presidente della Catalogna, insieme a vari membri del suo governo, fuggì in Belgio per evitare l’arresto e divenne un po’ il simbolo della lotta per l’indipendenza catalana.

Le elezioni regionali tenutesi nel dicembre 2017, imposte dal governo centrale, videro una nuova vittoria delle forze indipendentiste, dimostrando che il desiderio di secessione era ancora vivo. Tuttavia, l’assenza di Puigdemont, che continuava a guidare il movimento dall’esilio, rese difficile qualsiasi tentativo di negoziato.

Con l’arrivo di Pedro Sánchez alla guida del governo spagnolo nel 2018, ci fu un cambio di tono nelle relazioni tra Madrid e Barcellona. Sánchez, leader del Partito Socialista Operaio Spagnolo (PSOE), ha cercato di riaprire il dialogo con i leader catalani, cercando una soluzione politica alla crisi.

Tuttavia, la questione è tutt’altro che risolta: le forze indipendentiste continuano a dominare la scena politica catalana, e la figura di Puigdemont, nonostante l’esilio, rimane influente.

La posizione dell’Unione Europea

L’Unione europea ha sempre seguito con grande attenzione la situazione della Catalogna, chiarendo fin dall’inizio che si tratta di una questione interna alla Spagna. Dopo il referendum del 2017, ha però ribadito che non avrebbe riconosciuto come legittima la dichiarazione di indipendenza della Catalogna: un eventuale Stato catalano si sarebbe trovato automaticamente fuori dall’Unione Europea.

Una scelta, questa, dettata dalla volontà di evitare un precedente che potesse incoraggiare altri movimenti secessionisti in Europa. Rimangono comunque gli interrogativi su come gestire le diversità culturali e linguistiche all’interno dell’Unione e su quali possano essere le soluzioni politiche che rispettino sia le identità regionali che l’unità degli Stati membri.

Gli ultimi articoli