Siamo a un punto di svolta della Storia. Almeno a giudicare dall’eco del disastroso incontro andato in scena venerdì, a favore di telecamere, tra il presidente statunitense Donald Trump (fiancheggiato dal vice J.D. Vance) e l’omologo ucraino Volodymyr Zelensky. Cinquanta minuti di conversazione inizialmente pacata ma culminata in un asprissimo confronto, urla, la mancata firma di un accordo e la cacciata del leader ucraino dalla Casa Bianca.
“Non so se fosse un’imboscata, non voglio escluderlo. Sicuramente l’intenzione era comunicare a Zelensky, agli alleati e ai rivali che gli Stati Uniti hanno cambiato passo”, spiega Gabriele Natalizia, direttore del Centro Studi Geopolitica.info e professore di Scienza politica alla Sapienza. “Altrimenti non l’avrebbero fatto davanti ai media. Durante gli incontri tra capi di Stato, anche quelli di Paesi alleati e partner, si dicono anche cose ben peggiori. Il punto è averlo fatto in pubblico”.
Zelensky ha sbagliato? L’esperto sottolinea che era andato a Washington per confrontarsi con un’amministrazione che, “ci piaccia o meno, ha deciso che si va verso un negoziato, un cessate il fuoco e poi qualche tipo di accordo di pace”. E quando il presidente ucraino ha ricordato agli interlocutori che Vladimir Putin ne ha già infranti parecchi, di accordi, Vance ha colto la palla al balzo per accusarlo di mancanza di rispetto. Già esistevano dissapori tra Trump e Zelensky, ricorda, e nel diverbio che è scaturito gli statunitensi “hanno colto l’occasione per esprimere tutto il loro scetticismo verso la capacità dell’attuale presidente ucraino di sedersi a un tavolo di trattative, quasi a considerarlo parte del problema”.
Quali alleati?
L’elemento “tragico” di quel dibattito, oltre alle accuse lanciate dagli statunitensi, è che in prospettiva hanno dato l’immagine di un Paese che non è convinto fino in fondo di voler essere il leader del mondo occidentale, o che gli alleati siano davvero necessari nel confronto che li aspetta con le potenze revisioniste. Un Paese che sta cambiando ed è disponibile a cambiare la sua posizione su certi temi, spiega Natalizia. Risultato: un segnale di “disunità totale” che certamente “ha strappato un sorriso sia a Putin che a Xi Jinping, che poi è il convitato di pietra in tutto quello che succede”. Se la guida del mondo libero abdica, le autocrazie si convincono che le possibilità di sfidare il primato americano siano migliorate.
L’altro grande problema è l’interpretazione che gli alleati potrebbero dare all’incontro: una sorta di “sciogliete i ranghi”, avverte l’esperto. Trump è scettico rispetto ad alleanze e partenariati e convinto che sostanzialmente gli americani siano stati “truffati” dagli europei in questi decenni, pagando con i soldi dei contribuenti americani la sicurezza dell’altra sponda dell’Atlantico. Per gli alleati il contenuto del messaggio è ambivalente: può essere un’esortazione a diventare sempre più autonomi, “ma può anche essere inteso come: cercatevi un nuovo protettore”. E mentre grandi Paesi come Francia, Germania, Italia e Regno Unito pensano tra mille difficoltà a potenziare la dimensione europea della Nato, altri potrebbero non aver altra scelta che guardare verso Mosca e Pechino.
Un processo già in corso (per chi lo voleva vedere)
Quella dell’amministrazione Trump non è una svolta improvvisa nella politica estera americana, ma un’accelerazione impressa a un processo già in atto da anni, sottolinea Natalizia. Come tutti i presidenti Usa dalla fine della Guerra fredda, Barack Obama e Joe Biden inclusi, anche lui mira a preservare il primato americano e – seppur con modi diversi – chiedere agli alleati di fare di più. Washington non vuole più sopportare da sola il fardello della preservazione dello status quo scaturito dal crollo del Muro di Berlino, e le altre capitali (specie quelle più ricche, che più traggono vantaggio dalla difesa di questo ordine) devono far valere il loro peso. E l’altro elemento in comune è il desiderio di convogliare quante più energie possibili verso l’Indo-Pacifico, cioè l’area dove si gioca la grande partita degli equilibri globali.
Cosa cambia con Trump? Dal punto di vista strategico la modalità con cui gli Usa si approcciano alle organizzazioni internazionali e al multilateralismo, che per il tycoon sono “relitti di una stagione completamente superata” e nel peggiore dei casi veicoli, finanziati in dollari americani, per l’influenza dei rivali. Oggi questa visione si è radicalizzata. Washington non è più solo critica verso enti come la Nato o l’Onu, ma sembra voler ridurre al minimo il coinvolgimento in alleanze strutturate. Da qui la predilizione di Trump per i rapporti bilaterali, dove gli Usa possono esercitare direttamente la loro influenza, spiega Natalizia.
Questo approccio “non implica necessariamente un’uscita dalla Nato”. E non tanto perché servirebbe il consenso di due terzi del Senato o una legge del Congresso Usa, per via di un emendamento bipartisan co-firmato nel 2024 dall’attuale segretario di Stato, Marco Rubio. Piuttosto, basterebbe un’interpretazione più lassista dell’articolo 5, quello sulla difesa collettiva, che non obbliga gli alleati all’azione militare ma al sostegno secondo gli strumenti ritenuti più opportuni. Questo “potrebbe tradursi in un rispetto formale degli obblighi, magari attraverso sanzioni e sostegno economico, senza un reale impegno militare”. Con tanti saluti alla credibilità Usa in fatto di deterrenza e sostengo agli alleati.
L’Europa alla ricerca di una strategia
Inutile rimarcare che con l’indebolimento della garanzia statunitense si aprono scenari complessi, a tratti terrificanti, per il Vecchio continente. Il summit di domenica a Londra tra i leader europei (più rappresentanti di altri Paesi come Canada, Turchia e la stessa Ucraina) è servito per rimarcare l’unità a sostegno di Kyiv, ma soprattutto per iniziare a parlare di come difenderla dopo un eventuale accordo di pace.
Il piano, a trazione Emmanuel Macron-Keir Starmer, è basato su un’Ucraina pesantemente armata e la creazione di una “coalizione di volonterosi” in grado di fornire soldati da inviare come forma di garanzia. Qui Londra e Parigi guardano a Roma, spiega Natalizia, visto che dopo gli Usa è l’Italia il Paese che contribuisce più personale per le operazioni internazionali della Nato. Un tema complesso a livello logistico prima ancora che politico, perché le forze italiane sono già impegnate ai limiti delle loro capacità.
Infine, evidenzia l’esperto, la bozza del piano parla comunque della necessità di garanzie americane. Anzitutto perché sebbene Francia e Regno Unito siano due potenze nucleari, il loro arsenale combinato è grande circa un decimo di quello russo. E soprattutto perché il progetto è “irrealizzabile” al di fuori della Nato, “che dispone di una struttura di comando e controllo integrata fondamentale” per il monitoraggio del territorio e la condivisione di informazioni, per esempio. Questa fornirebbe la base della sicurezza dei soldati europei e ucraini in un modo che nessuna coalition of the willing sarebbe in grado di sostituire.
Un problema di numeri (e mentalità)
Proteggere l’Ucraina senza Usa è uno scenario “impensabile”, continua Natalizia. Anche perché “nel medio-lungo termine spendere tanto per la difesa dell’Ucraina significa sottrarre risorse alle spese per la difesa dei singoli Paesi Nato, in un momento in cui bisogna salire al 2,5% o 3%” di spesa militare rispetto al Pil. Senza Washington, quella cifra potrebbe essere molto più alta, ammesso e non concesso che tutti i Paesi europei paghino il dovuto e che non ci siano freerider (in altre parole, “scrocconi”), come lo è stata in parte l’Italia, puntualizza il professore. E comunque si tratta di uno scenario “che le nostre società non sono pronte a sostenere”.
E l’esercito europeo?
La fotografia dell’esperto azzoppa l’idea della creazione di una forza europea credibile ed efficace in tempi utili: mancano tempo e finanze, il nemico è alle porte, non ha senso lavorare su un progetto che genererà sicurezza tra 15-20 anni. “Purtroppo sembra banale, ma ci avremmo dovuto pensare prima. Oggi il formato migliore che abbiamo è la Nato. L’ex segretario generale Jens Stoltenberg lo ripeteva spesso: l’esercito europeo già esiste, si chiama Nato. Il punto è renderla più europea possibile, visto anche che gli americani ce lo chiedono”.
Il ponte italiano?
Il rischio che si cela dietro il summit di Londra è che l’amministrazione di Washington veda questa coalizione europea come un formato avversativo, rileva Natalizia. Gli europei “dovranno cercare di lavorare il più possibile per non farlo sembrare tale, e in questo Roma ha un ruolo importante. Lo stesso Starmer l’ha detto chiaramente: l’Italia in questo momento ha il ruolo di bridge builder”, costruttrice di ponti. Ruolo che, se giocato bene dalla premier Giorgia Meloni, “potrà essere molto vantaggioso per l’Italia”, ma è anche “altamente rischioso” perché può risultare ambiguo, quasi doppiogiochista, su entrambe le sonde dell’Atlantico.
A Londra Meloni si è distinta per le sue invocazioni all’unità dell’Occidente e alla sua promessa di aiutare a ricucire lo strappo tra Washington e Kyiv. Sembra dunque la candidata naturale per quel ruolo, specie in vista di un’amministrazione Usa che più di altre crede nella diplomazia personale e dà valore al feeling personale tra i leader, spiega il professore. “O almeno, queste sono le indicazioni che sembra dare Trump”.
Il mondo nuovo…
Un equilibrio Nato che funzioni per tutti suona può o meno così: l’Europa si occupa della sua sicurezza di modo che gli Usa possano dedicarsi all’Indo-Pacifico, come ha indicato il segretario alla Difesa Pete Hegseth. Fermo restando che gli statunitensi e il loro ombrello nucleare devono rimanere il garante di sicurezza di ultima istanza. E tenendo conto che oltreoceano serve un cambio di passo in fatto di cultura strategica, “specie in Italia”.
“Dobbiamo capire che è cambiato il mondo che abbiamo intorno e che va fatto quello che potevamo evitare di fare prima. A meno di non rimanere alla mercè della Russia, della Cina, o anche di attori minori che incidono sul nostro ambiente strategico. Penso al Mediterraneo, a come si muove l’Iran in Medio Oriente e come influenza enti anche non statuali come gli Houthi: per contrastarli bisogna investire in difesa”.
… e la fine della Nazione indispensabile
Tutto questo non toglie un fatto: quello che è avvenuto venerdì “ha posto un immenso problema di credibilità per gli Stati Uniti”. Prima gli alleati potevano confidare nel fatto che Washington avrebbe mantenuto le promesse, spiega Natalizia. Ma per come si è sviluppato il rapporto Usa-Ucraina oggi sembra vero il contrario, ed è possibile che sia disposta a far saltare il banco da un momento all’altro. “Quello è stato il danno d’immagine che si sono inflitti gli statunitensi. Quel litigio a porte chiuse era comprensibile: il problema è stato farlo di fronte al mondo”.
Sembra il tramonto di quell’immagine proiettata da Washington negli scorsi decenni, “l’egemone benevolente”, disposto a muoversi anche contro il proprio interesse e garantire sempre la sicurezza globale. Cosa che legittimava parecchio la sua immagine in altre capitali, che dunque erano disponibili ad accettare le richieste Usa anche contro i propri interessi, spiega il professore. Oggi sembra più un egemone vecchia scuola: sono più forte io, decido io, fai quello che dico io. E se non lo fai e non ringrazi, come ha detto Vance, tanti saluti.
“Siamo ancora in una condizione di unipolarismo che favorisce gli Stati Uniti e chi gli sta vicino. Ma non è più l’unipolarismo degli anni ‘90”: il potere è meno concentrato e c’è chi “sta crescendo e si sta attrezzando per creare un nuovo equilibrio. Sicuramente la Cina, con l’aiuto anche di altri Paesi che hanno interessi almeno convergenti: Russia, Iran, Corea del Nord”. In questo contesto, e considerando il declino relativo dell’Occidente, si può parlare di competizione strategica, sottolinea Natalizia.
“Questo provoca il cambio di intenzioni da parte degli attori, specie quelli che garantivano l’ordine internazionale. Prima gli Stati Uniti si potevano permettere di agire come la nazione indispensabile – questa era la definizione della segretaria di Stato Madeleine Albright dal 1998, the indispensable nation. Ma non lo sono più dagli anni di Obama”. Il processo di disimpegno da Medio Oriente e Nord Africa e dall’Afghanistan inizia con lui, prosegue col primo Trump e viene portato a compimento da Biden, perché Washington si vuole concentrare nell’area da cui crede che dipenderà il destino del futuro ordine internazionale.
E ora?
Ora serve osservare le mosse degli Usa, dice Natalizia. A partire dalla sospensione degli aiuti militari voluta lunedì sera da Trump e guardando a un futuro voto del Congresso sul rinnovo degli aiuti finanziari. “Da questa amministrazione e questo Congresso ci potevamo aspettare un’operazione d’immagine, un ridimensionamento limitato. Ma bloccare tutto è un’altra questione”: si passa dalla dottrina del generale Keith Kellogg – inviato speciale per l’Ucraina e fautore dell’applicazione della pressione sia su Mosca che su Kyiv – a una strategia di pressione sull’Ucraina e incentivi per la Russia.
La prossima spia delle intenzioni di Washington sarà l’eventuale accordo tra i due combattenti. Se vengono sacrificati tutti gli interessi dell’Ucraina e riconosciute tutte le richieste della Russia (cosa quantomento strana per un presidente che ha a cuore la sua fama di businessman) “l’amministrazione Trump otterrebbe il favore dei suoi sostenitori nel breve termine, ma assesterebbe un colpo irreparabile all’immagine degli Usa sul medio termine”.
Se verranno soddisfatte le richieste di Mosca – l’Ucraina non entra nella Nato, la Russia si tiene tutti i territori conquistati, si crea una zona demilitarizzata senza combattenti europei – gli Stati Uniti “manterranno il primato mondiale, ma non la leadership fondamentale”, conclude l’esperto. E la domanda che ne consegue è solo una: riusciranno a rimanere i più forti se non c’è più nessuno che li sostiene?