Come cambiano le chances di Ursula e Mario 

Lei parla da presidente uscente ma in pectore, Draghi più trasversale e in lizza per il Consiglio. Da capire che effetto avrà l'indebolimento di Macron e Renew sulle chances dell'ex premier italiano
2 mesi fa
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Draghi e von der Leyen
Draghi e von der Leyen a confronto

Chi sarà il o la prossima presidente della Commissione Ue? Questa è la domanda che si fa il mondo dopo le elezioni del Parlamento europeo. Se prima la risposta era incerta, dopo i risultati delle europee 2024, inizia a prendere forma la conferma di Ursula von der Leyen alla guida dell’esecutivo europeo. Il partito popolare europeo da lei guidato non solo è uscito trionfante dalle elezioni, ma ha persino aumentato i consensi rispetto al 2019. Sfuma dunque l’ipotesi Mario Draghi, da molti mai considerata credibile fino in fondo, ma il suo nome resta caldo per il ruolo di presidente del Consiglio europeo.

Le destre avanzano ma non sfondano

La stessa presidente uscente, commentando i risultati elettorali ha parlato da presidente in pectore promettendo di lavorare per creare “un’ampia maggioranza di forze pro europee”. Il quadro che esce dalle elezioni dice che la maggioranza europeista è ancora viva.

Von der Leyen è l’unico nome credibile perché l’avanzata delle destre c’è stata ma la valanga tanto attesa (e temuta dagli europeisti) non c’è stata. Ad eccezione di Italia, Austria e soprattutto Francia, dove lo strepitoso risultato del Rassemblement National di Marine Le Pen ha causato un terremoto politico e costretto Emmanuel Macron a sciogliere l’Assemblea nazionale e convocare nuove elezioni.

La maggioranza tiene


A livello europeo tiene la maggioranza formata da popolari, socialisti e liberali, mentre i Verdi (usciti gravemente feriti dalle urne) sembrano pronti a sostenere un nuovo esecutivo targato von der Leyen a patto che questo tenga fuori i due gruppi della destra radicale, ovvero Identità e Democrazia e i Conservatori e Riformisti europei. Al gruppo di Le Pen corrisponderebbero in tutto 58 deputati, mentre agli Ecr di cui fa parte Fratelli d’Italia spetterebbero 73 deputati. A meno di sorprese sulle adesioni ai vari gruppi, il Ppe eleggerà 185 eurodeputati, 9 in più rispetto al 2019, i socialisti 137, 2 in meno, mentre i liberali perderebbero 23 seggi, arrivando a quota 79.

Secondo questi numeri, la “maggioranza Ursula” conta in tutto 401 europarlamentari su 720 totali. Si tratta di una maggioranza evidente, che dovrebbe confermare l’attuale presidente della Commissione Ue. Vale la pena ricordare che il Ppe è l’unico grande gruppo a non aver firmato una dichiarazione in cui si impegna a non collaborare con schieramenti di estrema destra come i Conservatori e Riformisti Europei (Ecr) e il gruppo Identità e Democrazia (Id).

L’ombra dei franchi tiratori

Il condizionale è d’obbligo perché nella plenaria costitutiva di luglio prossimo potrebbe prendere forma l’ombra dei franchi tiratori: nel Ppe calcolano una quota del 15% di voti in meno dal gruppo della maggioranza. Se le stime dei popolari venissero confermate, quei 401 eurodeputati scenderebbero a 340 voti, rimettendo in bilico la conferma dell’attuale presidente di Commissione.

Per questo il Ppe dovrà valutare se e come allargare il proprio gruppo, che comunque resta solido. La scelta del presidente della Commissione europea prevede due fasi: la nomina da parte dei 27 leader dei Paesi membri e la conferma del Parlamento europeo con voto a maggioranza.

Il Consiglio europeo si riunirà tra il 27 e 28 giugno, ma secondo indiscrezioni i capi di Stato e di governo si riuniranno per una cena informale già lunedì 17 giugno. Alcuni ci arriveranno più forti, altri più deboli: su tutti il presidente francese Macron e il socialista tedesco Olaf Scholz, che erano i due leader più scettici sulla conferma di von der Leyen. I negativi risultati ottenuti dai loro partiti alle europee sono un altro indizio che portano alla conferma della presidente uscente.

Von der Leyen nel segno della stabilità

Ursula von der Leyen, affiliata al Partito popolare europeo (Ppe), è vista come un baluardo di continuità e stabilità. Sotto la sua guida, l’Ue ha avviato importanti iniziative come il Green Deal Europeo, l’Agenda Digitale Europea, e il Next Gen Eu. Queste politiche hanno guadagnato l’appoggio non solo del Ppe ma anche di alleati chiave nella “maggioranza Ursula”, che include i Socialisti e Democratici (S&D) e Renew Europe, cruciali soprattutto alla luce del rischio franchi tiratori di cui sopra.

In particolare, la leadership mostrata dalla presidente durante la pandemia di Covid-19, orchestrando il piano di ripresa Next Generation Eu, che ha stanziato miliardi di euro per sostenere la ripresa economica degli Stati membri, con un focus su sostenibilità e innovazione digitale, ha rafforzato la sua posizione come leader capace di affrontare le sfide globali con un approccio inclusivo. Le sue parole al dibattito per il candidato comune sono ispirate alla Realpolitik, quanto mai utile all’Unione europea sempre più minacciata dagli scenari geopolitici. Von der Leyen ha però ribadito la linea rossa da non oltrepassare nel gioco delle alleanze. Ricordando che in questi equilibri “si parla di persone e non di gruppi”, la presidente ha specificato di non volersi alleare con l’intero gruppo Ecr, ma solo con le parti di esso che soddisfino gli ormai famosi tre criteri: essere favorevoli all’Ue; schierarsi contro la Russia di Putin; sostenere lo stato di diritto.

Mario Draghi e le riforme strutturali

La “candidatura” di Draghi era stata prospettata da molti, pur senza mai trovare la conferma esplicita del diretto interessato.

L’ex presidente della Bce emergeva sicuramente come candidato forte e con un appoggio più trasversale rispetto a Ursula von der Leyen. Draghi, noto per la sua gestione della crisi dell’eurozona durante il suo mandato alla Bce e per il suo “whatever it takes” con cui ha scacciato lo spauracchio degli speculatori dall’economia europea, è visto come un leader capace di portare stabilità economica e di promuovere riforme strutturali. Il suo supporto attraversa diverse linee politiche, e comprende persino alcuni conservatori come Viktor Orbán.

Il suo nome resta forte come possibile presidente del Consiglio Ue al posto di Charles Michel. A febbraio, l’ex presidente del Consiglio italiano, aveva strigliato duramente l’Unione per i meccanismi che ne ostacolano la competitività: “Fate qualcosa, non si può dire sempre di no”.

Parlando ai presidenti delle commissioni del Parlamento Europeo, Draghi aveva aggiunto: “I soldi sono solo un aspetto del problema. L’altro aspetto è una profonda rivisitazione delle regole che abbiamo costruito e sulle quali abbiamo lavorato”. Per l’ex governatore di Bankitalia, quindi, la priorità è una riforma strutturale dell’Ue, una profonda rivisitazione dei suoi meccanismi di funzionamento. Se è vero che la iper regolamentazione non è l’unica causa del ritardo dell’Unione, non si possono più ignorare le impasse burocratiche e politiche che rallentano l’Ue. “È quello che dobbiamo fare ora: riforme strutturali, a livello di Unione Europea. Il mercato unico è altamente imperfetto: ci sono centinaia di direttive che non vengono attuate, o che vengono attuate in modo diverso a seconda dei Paesi”, aveva aggiunto Draghi a febbraio. Il suo nome resta caldo per il Consiglio europeo, mentre queste parole restano come un monito per l’Europa che verrà. D’altronde, a chiedere a Draghi il riforma strutturale dell’Ue dell’Unione era stata la stessa Ursula von der Leyen.

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