Compiti (e limiti) del nuovo commissario europeo alla Difesa. Le prospettive di Ferrata (Rud Pedersen)

L'industria della difesa europea è frammentata e ha bisogno di grandi investimenti. Ma il nuovo commissario Kubilius dovrà superare una serie di ostacoli
4 settimane fa
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Luigi Ferrata

Nella nuova Commissione europea, che deve ancora superare le audizioni all’Europarlamento, irrompe un nuovo membro di peso, il commissario alla Difesa e allo Spazio. La nuova delega è stata assegnata ad Andrius Kubilius, ex primo ministro lituano, ma i suoi poteri e le sue competenze sono tutte da scrivere. Tenendo da parte la parte sullo spazio, su cui l’Ue ha già una sua storia, con Luigi Ferrata, managing partner di Rud Pedersen Italia, ci siamo concentrati sulle cose che potranno cambiare nel settore della difesa.

Leggendo la sua lettera di incarico, Kubilius dovrà:

– Aumentare gli investimenti rafforzando il Fondo europeo per la difesa e attuando il regolamento sul rafforzamento dell’industria europea della difesa attraverso gli appalti comuni (Edirpa) e il regolamento a sostegno della produzione di munizioni (Asap).

– Presentare un Libro Bianco sul futuro della difesa europea nei primi 100 giorni del mandato per identificare le esigenze di investimento e proporre un quadro di riferimento per il rafforzamento della difesa europea.

– Attuare la strategia spaziale dell’UE per la sicurezza e la difesa.

– Rafforzare il mercato unico della difesa, anche attraverso l’aggregazione della domanda, gli appalti congiunti e il sostegno alle PMI.

– Contribuire alla creazione di corridoi infrastrutturali di trasferimento dual use per la mobilità del personale e delle attrezzature militari.

– Guidare la creazione e l’attuazione dei progetti comuni di scudo aereo europeo e di difesa cibernetica.

– Applicare la strategia industriale e di difesa europea e portare a termine i negoziati sul programma industriale europeo di difesa.

Un vasto, vastissimo programma. Ferrata, come siamo arrivati a questo punto, all’urgenza di dotare l’Europa di una difesa più coordinata, che è stato uno dei punti principali anche del report di Mario Draghi?

“Arriviamo alla nascita di un commissario alla Difesa in una fase di grande incertezza. Innanzitutto, perché sappiamo che la difesa è una delle caratteristiche fondanti di uno stato, alla base del contratto con i cittadini. L’Unione non è uno stato e qui c’è già un primo problema. Si è arrivati a parlare di difesa europea per tre eventi specifici. Il primo, la Presidenza Trump: gli europei per la prima volta dal dopoguerra vengono messi dagli Stati Uniti davanti alle proprie responsabilità (e al proprio contributo) nel campo, senza più dipendere solo dall’alleato americano. Il secondo, lo spostamento della politica estera degli Stati Uniti verso l’Indo-Pacifico. Il terzo, ovviamente l’invasione russa dell’Ucraina che ha cambiato totalmente gli scenari. E non è un caso la scelta del Commissario, un lituano, un paese che è stato sottoposto alla dominazione russa per circa cinquant’anni e per cui la Russia è un nemico storico. C’è una direzione politica ben precisa”.

Faccio un passo indietro: in Europa abbiamo avuto casi di collaborazioni internazionali, come il caccia Eurofighter e il (tutto da costruire) carro armato franco-tedesco. Nel 2017 nasce la Pesco, un processo per rafforzare la cooperazione nel settore in questo settore. 25 Stati membri (no Danimarca e Malta) hanno aderito, concordando di investire, pianificare, sviluppare e mettere in atto in maniera maggiormente congiunta le proprie capacità militari. Ci stiamo riuscendo?

“Abbiamo un contesto complesso, in cui per esempio Austria e Malta si dichiarano totalmente neutrali. Si parla di difesa europea, ma all’interno del Parlamento europeo non esiste una commissione specifica sulla difesa, bensì una sottocommissione della Affari esteri. Si parla di massicci investimenti in questo campo, ma allora sarebbe il caso di rivedere la tassonomia ESG, perché sarà un problema finanziare l’industria di della difesa se non si ripensano i criteri che favoriscono gli investimenti green e scoraggiano quelli che non sono pienamente sostenibili. E poi bisogna mettersi d’accordo sul procurement europeo, visto che al momento importiamo circa il 78% del nostro fabbisogno di difesa. è difficile però competere con i giganti internazionali se il diritto della concorrenza europeo impedisce la nascita di campioni”.

In questi mesi si è parlato anche di un Pnrr della difesa, di un fondo europeo finanziato con debito comune. Ne ha parlato anche Draghi. È un programma fattibile secondo te?

È un tema centrale su cui serve un ragionamento comune. Si parla di debito buono, e va bene, ma il tema è capire prima cosa serve per gettare le basi di un’industria della difesa europea. Il rischio è avere finanziamenti a pioggia che non raggiungono l’obiettivo di creare un sistema di sicurezza comune. E poi in questi progetti si dà molta enfasi ai grandi sistemi di armamento, missili, carri armati aerei. Ma serve un focus anche sulle dotazioni dei soldati, sulle armi leggere, che sono poi quelle che servono a chi mette i boots on the ground, che sono titolari della nostra sicurezza collettiva”.