Il punto debole dell’Europa si chiama terre rare

La Cina ha imposto restrizioni all’export di terre rare, facendo emergere la vulnerabilità industriale dell’Europa. La Bce analizza le catene di fornitura: oltre l’80 % delle grandi imprese europee è a non più di tre intermediari da un produttore cinese
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Miniera Terre Rare Canva
Lavoratori che estraggono metalli delle terre rare in una miniera a cielo aperto

Il 4 aprile 2025 la Cina ha imposto restrizioni alle esportazioni di terre rare. Un gesto che, in apparenza, voleva colpire gli Stati Uniti dopo l’innalzamento dei dazi americani, ma che ha immediatamente rivelato un’altra vulnerabilità: quella europea. In meno di un mese le spedizioni cinesi di magneti a base di terre rare sono crollate del 75% rispetto all’anno precedente. Solo a giugno i volumi sono risaliti, restando però al di sotto dei livelli medi del 2024.

Il nuovo Economic Bulletin della Banca Centrale Europea fotografa questa dipendenza. L’area euro importa dalla Cina circa il 70% delle sue terre rare, e anche quando non compra direttamente, finisce per farlo indirettamente. Gli Stati Uniti, che dipendono da Pechino per circa l’80 % delle loro importazioni di terre rare, fungono da intermediari: i prodotti americani che contengono questi materiali — dai semiconduttori ai motori elettrici — diventano un canale di vulnerabilità per l’Europa.

La mappa della dipendenza è intricata: oltre l’80% delle grandi imprese europee si trova a non più di tre intermediari di distanza da un produttore cinese di terre rare. Solo pochi colossi, come Airbus e BASF, acquistano direttamente. Un quarto delle aziende – tra cui Volkswagen, Renault e Telefónica – si affida a un solo intermediario, spesso una società statunitense come Microsoft, Apple o Intel. Quando la Cina chiude il rubinetto, l’onda d’urto non attraversa solo l’oceano Pacifico: si propaga attraverso Washington, tocca Francoforte e arriva fino a Torino o Bilbao.

Le terre rare non sono realmente “rare”, ma estrarle e raffinarle è costoso e inquinante. La Cina produce circa il 95 % delle terre rare mondiali e domina anche la raffinazione di litio e cobalto. È un monopolio consolidato in decenni, oggi trasformato in leva geopolitica. Quando una sola potenza può bloccare l’approvvigionamento di un intero continente, la sovranità industriale diventa un concetto materiale.

Come la Cina tiene in pugno la manifattura europea

L’analisi della Bce non parla di ipotesi, ma di interconnessioni concrete. Più dell’80 % delle grandi imprese europee ha legami diretti o indiretti con fornitori cinesi di terre rare. In media, bastano tre passaggi — tre intermediari — perché un produttore europeo arrivi a un fornitore cinese.

Il cuore della vulnerabilità è nell’industria manifatturiera. L’auto elettrica vive di magneti permanenti al neodimio; le turbine eoliche li usano per i rotori; computer e smartphone li integrano in microprocessori e dischi rigidi. Ogni interruzione può bloccare segmenti chiave della catena produttiva.

Secondo la Bce, circa un quarto delle imprese dell’area euro dipende da un unico intermediario. Spesso sono aziende statunitensi che acquistano le terre rare dalla Cina, le trasformano in componenti ad alto valore aggiunto e le rivendono alle imprese europee.

A giugno 2025, le importazioni europee di terre rare erano al di sotto dei livelli tipici, e l’Associazione europea dei produttori di componenti per l’automotive ha parlato di “stock critici” e linee produttive ferme. Bruxelles ha poi negoziato con Pechino procedure di licenza più rapide per alcune aziende, riuscendo a evitare interruzioni diffuse.

La Cina ha dimostrato di poter usare il proprio quasi-monopolio come arma diplomatica. Lo aveva già fatto nel 2010 contro il Giappone, ora lo ripete su scala globale. Per l’Europa, che sta cercando di emanciparsi dalle dipendenze energetiche e tecnologiche, questa mossa è un test di tenuta.

L’asimmetria della transizione verde

Le terre rare sono l’anello invisibile della transizione verde. Ogni motore elettrico, turbina e batteria ne contiene una quota minima, ma indispensabile. Quando la Cina restringe le esportazioni, non è solo un problema industriale: è un ostacolo diretto alla decarbonizzazione europea.

Il Critical Raw Materials Act, approvato nel 2024, punta a ridurre questa dipendenza. Bruxelles ha fissato obiettivi precisi per il 2030: coprire almeno il 10 % del fabbisogno europeo con estrazione interna, il 40% con lavorazione e il 25% con riciclo, e non oltre il 65% delle forniture da un solo Paese terzo. Ma la tempistica della politica industriale è più lenta della geopolitica.

L’Europa non dispone ancora di infrastrutture di riciclo su scala industriale. I progetti pilota in Germania, Svezia e Francia restano limitati; le miniere potenziali, come Norra Kärr in Svezia o San Juan de la Cruz in Spagna, sono ancora in fase di autorizzazione. Nel frattempo, la catena globale resta in mano cinese.

Secondo la Bce, su 1.767 imprese europee analizzate, solo 11 hanno rapporti diretti con produttori cinesi e 16 con aziende di derivati; tutte le altre dipendono da almeno un intermediario. La rete globale delle terre rare ha i suoi principali nodi in Cina, Giappone e Stati Uniti: l’Unione europea, oggi, è soprattutto un cliente.

Questa asimmetria è anche tecnologica. Le imprese europee dipendono da componenti esteri non solo per l’accesso ai materiali, ma per il know-how. La Cina controlla la raffinazione, gli Stati Uniti la trasformazione avanzata — dai semiconduttori ai magneti — e l’Europa si trova nel mezzo.
Quando i prezzi delle materie prime aumentano, le tecnologie verdi diventano più costose: le auto elettriche salgono di prezzo, le turbine perdono competitività, gli obiettivi climatici rallentano.

La crisi delle terre rare mette alla prova la retorica dell’autonomia strategica europea. Dopo la pandemia e la guerra in Ucraina, Bruxelles ha promesso di accorciare le catene di approvvigionamento. Ma nel campo delle terre rare, la diversificazione resta un obiettivo lontano.

L’Africa e l’America Latina, dove si concentrano molti giacimenti, sono teatri di competizione globale. La Cina ha già siglato accordi pluriennali con il Congo per il cobalto e con l’Argentina per il litio; l’Europa si muove più lentamente. Gli accordi con Cile e Namibia non basteranno a compensare un eventuale blocco cinese.

La Bce invita alla prudenza, ma il messaggio è inequivocabile: “Le pressioni sulle catene di fornitura e gli aumenti dei prezzi non sono imminenti, ma è cruciale monitorare gli sviluppi, data la possibilità di rapidi cambiamenti nelle dinamiche globali,” scrivono gli economisti Mattia Banin, Mario D’Agostino, Vanessa Gunnella e Laura Lebastard.

Il rischio è duplice: inflazione e stagnazione industriale. Se i costi delle materie prime crescono, le aziende li trasferiscono sui consumatori; se i materiali mancano, la produzione si ferma. È un equilibrio instabile che può rallentare la ripresa dell’area euro.

La pandemia ha mostrato la fragilità delle catene globali; la guerra in Ucraina ha rivelato il prezzo della dipendenza energetica. Ora la crisi delle terre rare aggiunge un nuovo livello di vulnerabilità: non gas né microchip, ma i materiali invisibili dell’economia digitale e verde.

L’Europa dovrà decidere se affrontare il costo politico dell’autonomia: nuove miniere, impianti di riciclo, alleanze strategiche e una politica industriale comune. Perché senza materie prime, anche la transizione resta sulla carta.