Migrazioni, l’Europa apre il nuovo fronte: tra solidarietà obbligata e linee di resistenza

Italia tra i Paesi in pressione, Ungheria e altri governi in trincea contro la redistribuzione: Bruxelles avvia la “solidarity pool” e misura la volontà politica degli Stati
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Migranti Ipa Fg
(Ipa/Fotogramma)

L’annuncio del primo ciclo di gestione annuale dell’asilo e della migrazione arriva mentre l’Unione prova a recuperare terreno su un dossier che negli ultimi anni ha corroso relazioni, creato sfiducia e spinto molti governi a gestire i flussi a colpi di deroghe. In aula, a Strasburgo, il passaggio del commissario alla Migrazione Magnus Brunner è arrivato come un tentativo di ricucitura: “Abbiamo aperto un cantiere di riforma totale, voltato pagina, compiuto passi importanti per ricostruire la fiducia e per riconquistare il controllo”, ha detto. Parole che segnano un cambio di passo: il Patto e la “Solidarity pool” escono dalla fase dei documenti e entrano in quella operativa, con tempi che la Commissione considera immediati.

Perché Bruxelles insiste sul “controllo”

Il Patto su migrazione e asilo, approvato nel 2024 ma operativo dal 2026, è costruito come una ristrutturazione profonda: procedure più rapide, standard più omogenei, capacità di intervento comune. Con il lancio del primo “Migration Management Cycle”, la Commissione vuole rendere chiaro che l’era delle valutazioni sporadiche è finita. Ogni anno Bruxelles dovrà definire quali Stati sono sotto pressione, quali rischiano di esserlo e quali possono concorrere alla redistribuzione.

In plenaria Brunner ha spiegato il punto di partenza della nuova fase: la distanza che si è creata tra regole e realtà. “C’è una certa frustrazione che nasce dalla percezione che le nostre regole siano ignorate, che tante persone che non hanno bisogno di protezione arrivino in Europa e si insedino”, ha dichiarato. Il riferimento è al fallimento dei meccanismi voluti dopo la crisi del 2015, spesso svuotati da veti politici, ricorsi e rinvii.

A dare sostanza alla volontà di “riprendere il controllo” è il collegamento tra Patto e strumenti tecnologici: Brunner ha rivendicato l’attivazione del sistema digitale Ees, il database unificato sugli ingressi e le uscite che, solo nel primo mese, ha registrato “oltre 4 milioni di ingressi e di uscite, quasi 3 milioni di cittadini di Paesi terzi”. Tracciatura uniforme, automatismi nelle verifiche e monitoraggio dei movimenti diventano elementi centrali della strategia complessiva.

A fare da sfondo c’è un altro dato citato dal commissario: “un calo del 35% negli ingressi irregolari”. Bruxelles lo interpreta come un segnale positivo legato ai nuovi accordi con Paesi terzi e alle politiche di contenimento, ma lo considera fragile. Da qui la richiesta agli Stati membri di “accelerare nell’attuazione del Patto”, mettendo da parte resistenze nazionali che potrebbero inceppare la macchina.

Come funziona la “pool” di solidarietà

Il centro operativo della riforma è la “Annual Solidarity Pool”: un contenitore nel quale gli Stati contribuiscono con tre modalità alternative — trasferimenti, supporto tecnico, contributi finanziari — e dal quale gli Stati sotto pressione possono ricevere aiuto. Non è un sistema identico alle ricollocazioni obbligatorie ipotizzate anni fa: questa volta ogni governo sceglie lo strumento, ma la partecipazione complessiva non è facoltativa.

Secondo i parametri tecnici già illustrati dalla Commissione, il pool deve garantire un volume minimo di trasferimenti e un budget finanziario stabile per chi non può o non vuole accogliere. Le capitali che decideranno di contribuire economicamente dovranno versare circa 20 mila euro per ogni persona non ricollocata. Il meccanismo, nelle intenzioni, serve a evitare un nuovo muro contro muro tra Paesi che rifiutano l’accoglienza e Paesi che chiedono sostegno immediato.

Accanto agli obblighi, però, il Patto prevede la categoria della “situazione migratoria significativa”: una definizione che consente a certi Stati – Polonia, Bulgaria, Repubblica Ceca, Estonia, Croazia e Austria – di chiedere esenzione totale o parziale dall’impegno annuale. Una clausola che apre una crepa politica: mentre alcune capitali di frontiera criticano da anni il mancato supporto europeo, ora altri Paesi possono invocare difficoltà interne per sottrarsi.

C’è, però, un duplice rischio: da un lato, l’esenzione potrebbe trasformarsi in un precedente per allargare il ventaglio dei “non partecipanti”, dall’altro, il peso della solidarietà potrebbe ricadere sempre sugli stessi governi disponibili. La Commissione difende la scelta spiegando che si tratta di un criterio tecnico: chi registra contemporaneamente richieste di asilo elevate, alti numeri di arrivi secondari e saturazione dei servizi potrà temporaneamente limitare il proprio contributo.

Tuttavia, resta un interrogativo politico: quando il pool dovrà essere attivato — per esempio a favore di Italia, Spagna, Grecia e Cipro — gli Stati esentati parteciperanno comunque in forme ridotte o si tireranno completamente fuori? La risposta a questa domanda determinerà la misura effettiva della solidarietà europea.

Italia in “pressione migratoria”

Il primo rapporto annuale della Commissione ha incluso l’Italia tra gli Stati in “pressione migratoria”. Una classificazione attesa, ma politicamente rilevante: apre la porta a forme di supporto europeo che Roma rivendica da anni. Le parole del ministro per gli Affari Europei Tommaso Foti hanno messo in chiaro l’interpretazione del governo: “Il rapporto sull’Asilo e la Migrazione riconosce finalmente quanto il Governo Meloni ha sostenuto sin dall’inizio: l’Italia è sempre stata in prima linea nella gestione dei flussi migratori e ha diritto a un sostegno concreto”.

Il riferimento è alla fase turbolenta degli ultimi anni, nella quale l’Italia si è trovata spesso ad assorbire la maggior parte degli arrivi nel Mediterraneo centrale senza meccanismi stabili di compensazione. Per Foti, la “pool” rappresenta “un atto doveroso e atteso”, soprattutto dopo un lungo periodo in cui Roma ha percepito l’Europa come spettatore esterno.

Il ministro ha collegato il riconoscimento europeo ai risultati rivendicati dall’esecutivo: “il calo significativo degli sbarchi e la stabilità nei rapporti con i Paesi del Nord Africa, grazie alla firma di accordi efficaci e innovativi come quello con la Tunisia e il Piano Mattei”. Si tratta di intese che Bruxelles guarda con prudenza ma non disdegna, perché producono un effetto immediato sui flussi.

Il quadro europeo, tuttavia, impone all’Italia anche un cambio di atteggiamento: se da un lato potrà ottenere trasferimenti, fondi o supporto operativo, dall’altro dovrà garantire procedure più rapide, registrazioni puntuali, standard elevati nei centri di accoglienza. Sarà valutata anche la capacità di mantenere controlli efficaci e percorsi amministrativi veloci.

Il vero terreno di verifica sarà la negoziazione delle quote del pool: quanti richiedenti asilo potranno essere ricollocati, quanti fondi arriveranno, quale sarà il peso degli altri Stati membri. Se la solidarietà resterà limitata, l’impianto del Patto rischierà di apparire come una promessa ben confezionata ma poco incisiva.

Le incognite operative

Tra le incognite che accompagnano l’avvio del Patto ci sono anche i tasselli che Bruxelles ha già messo sul tavolo ma che non sono ancora approdati al traguardo legislativo. Brunner lo ha ricordato in aula, spiegando che la riforma “non è perfetta” e che restano da completare gli elementi più sensibili: il nuovo regolamento sui rimpatri, la disciplina aggiornata sui Paesi terzi sicuri e il rafforzamento degli strumenti che dovrebbero rendere più rapido il passaggio dall’esito negativo della domanda al ritorno effettivo. Sono proposte già presentate all’inizio del mandato, ma ancora in discussione tra Parlamento e Consiglio. Per gli Stati di frontiera questo è un punto decisivo: senza un quadro comune sui rimpatri, anche la parte più innovativa del Patto rischia di incepparsi, lasciando i Paesi esposti con la responsabilità di gestire lunghe permanenze e procedure che non si chiudono mai davvero.

Un altro fronte aperto riguarda la definizione tecnica di “pressione migratoria”. L’indicatore combina più variabili — arrivi, richieste d’asilo, capacità di accoglienza, movimenti secondari — ma la metodologia non è ancora pubblica nel dettaglio. Stati classificati in categorie non gradite potrebbero contestare l’etichetta e chiedere revisioni, rallentando il calendario del pool.

Viene poi il tema degli standard. Il Patto pretende che tutti gli Stati si adeguino alle procedure uniformi di screening, hotspot, valutazione accelerata e gestione informatica delle pratiche. Per Paesi che hanno sistemi amministrativi già saturi, significa investimenti immediati e personale specializzato. La Commissione prevede finanziamenti ad hoc, ma l’attuazione dovrà essere verificata sul campo.

Sul piano interno, l’Italia dovrà fare i conti con la propria realtà: in alcune regioni le strutture di accoglienza sono già al limite; in altre, la rete dei comuni non è pronta a un sistema di redistribuzione interno rapido e standardizzato. Anche la relazione con le Ong, spesso oggetto di contrasti politici, dovrà essere allineata alle nuove procedure senza creare zone grigie.

Infine, c’è un elemento politico che pesa più di altri: la “solidarietà” non è automatica. Dipende dalla volontà degli Stati di farla funzionare. E nelle ultime settimane diverse capitali hanno scelto di tenersi alla larga dall’idea stessa di ospitare richiedenti asilo trasferiti da altri Paesi membri. L’Ungheria ha guidato il fronte del rifiuto, con Viktor Orbán che ha liquidato il nuovo sistema con un messaggio diretto: “Bruxelles ha dato l’ordine. Stanno attivando il Patto sulla Migrazione. Voglio chiarirlo una volta per tutte: finché l’Ungheria avrà un governo patriottico, non applicheremo il Patto sulla Migrazione. E lo ribadisco: non accetteremo migranti e non spenderemo un solo centesimo”. Varsavia, pur potendo beneficiare dell’esenzione prevista per gli Stati in “situazione significativa”, ha assunto una posizione praticamente identica: nessuna disponibilità ad accogliere persone ricollocate. Praga e Bratislava hanno seguito la stessa traiettoria, pronte a valutare contributi finanziari o assistenza tecnica ma non i trasferimenti. Vienna, dal canto suo, ha chiesto di essere inserita tra i Paesi che possono limitare la partecipazione, richiamando la pressione della rotta balcanica.

Questo insieme di resistenze — diverse nelle argomentazioni, identiche negli effetti — rischia di costruire un’Unione a più velocità, in cui la solidarietà grava su una minoranza di governi mentre altri invocano clausole di esenzione o si impegnano solo in forma minimale. Se questa tendenza dovesse consolidarsi, la “pool” nascerebbe già sbilanciata. Per Bruxelles, i prossimi mesi saranno decisivi: ciascun governo dovrà indicare formalmente come intende contribuire, la Commissione definirà criteri e quote, il Parlamento dovrà verificare che il sistema non si deformi. Serviranno atti concreti, tempi rapidi e un livello di cooperazione che finora è mancato.