Uscita imbarazzante o genio calcolato? In molti se lo sono chiesto, dopo che il presidente Usa Donald Trump ha pubblicato sul suo social Truth un messaggio privato che gli era stato inviato dal segretario generale della Nato, Mark Rutte. Jennifer Upton, ex diplomatica con oltre 20 anni di esperienza presso il Ministero degli Esteri del Regno Unito, pensa che sia genio. O meglio, una strategia calcolata che ha portato i suoi frutti. E su LinkedIn spiega perché.
Ma andiamo con ordine. Il giorno prima che iniziasse l’importantissimo vertice della Nato a L’Aja (24-25 giugno), Rutte ha scritto a Trump: “Congratulazioni e grazie per la tua azione decisiva in Iran, è stata davvero straordinaria e nessun altro avrebbe osato farlo. Ora siamo tutti più al sicuro. Stai volando verso un altro grande successo all’Aia questa sera. Non è stato facile, ma li abbiamo convinti tutti a firmare per il 5%! Donald, ci hai portati a un momento davvero, davvero importante per l’America, per l’Europa e per il mondo. Riuscirai in qualcosa che NESSUN presidente americano è riuscito a ottenere in decenni. L’Europa pagherà in GRANDE misura, come è giusto che sia, e sarà una tua vittoria”.

In molti – moltissimi – hanno criticato il tono, il linguaggio e lo stile di Rutte. Considerato imbarazzante, addirittura ‘cringe’, e che ha fatto fare all’Europa la figura di un’entità sottomessa e inerme, piegata ai voleri del tycoon.
Il fine giustifica i mezzi
Upton però fa un ragionamento estremamente pratico, come pratica dovrebbe essere, ed è, la diplomazia, e che si sintetizza in una semplice quanto antica massima: il fine giustifica i mezzi. E quali sono questi fini? Per Rutte, tenere insieme la Nato, minacciata proprio da Trump, che ha più volte paventato di uscirne o comunque di ridurla a un involucro vuoto.
Di conseguenza, spiega Upton, Rutte deve decidere come relazionarsi con il presidente Usa nel modo più funzionale possibile ai propri interessi di segretario generale dell’Alleanza Atlantica.
Una strategia è proprio quella di scendere nel campo di Trump: tutti sanno che l’adulazione ha molta presa su di lui, che ama essere visto come un uomo forte e deciso, che ha poca pazienza verso gli incontri multilaterali e che possiede una scarsa capacità di attenzione.
Soprattutto, chiunque ormai conosce i toni e il linguaggio usati dal presidente Usa anche nelle situazioni più formali e ufficiali: lettere maiuscole, punti esclamativi, espressioni infantili, narrazioni semplificate, aggressività, trionfalismo. Lo stesso Trump, insomma, pare adeguarsi a quello che è il linguaggio di parte della sua base, in modo che la sua comunicazione arrivi, sia efficace, faccia breccia.
Secondo Upton questo Rutte lo sa benissimo e “così ha fatto quello che fanno i diplomatici efficienti: si è adattato”. Di conseguenza, il suo messaggio “parlava letteralmente la lingua di Trump”.
E i risultati ci sono stati, continua l’ex diplomatica: il presidente degli Stati Uniti ha partecipato al Vertice dell’Aja senza andare via prima (come ha fatto la settimana prima al G7, ad esempio), e in conferenza stampa ha assunto un tono più moderato del solito.
Sarà stato tutto merito del messaggio di Rutte? Probabilmente no, riconosce la stessa Upton, che però sottolinea come la diplomazia si giochi anche su segnali sottili che aprono porte che consentano di arrivare a dialogare (che poi è l’obiettivo della diplomazia).
Zelensky in abito formale: non solo Rutte asseconda Trump
L’olandese non sarebbe comunque il primo a usare questi metodi con Trump. Si è molto parlato in questi giorni, e anche Upton lo ricorda, del colpo di scena per cui Volodymyr Zelensky si è presentato al vertice Nato con un abito e non con la sua solita mise militare. E questo, nonostante avesse detto che si sarebbe presentato in vesti civili solo quando la guerra fosse cessata. Evidentemente, viste le critiche ricevute ancor prima di iniziare il famoso incontro nello Studio Ovale lo scorso febbraio, anche il presidente ucraino ha calcolato che sia più astuto e fruttuoso adulare Trump, facendogli pensare di aver seguito un suo ‘suggerimento’.
D’altronde anche in occasione della visita a Washington del premier britannico Keir Starmer, sempre a febbraio, si era già discusso del suo differente approccio verso il tycoon, basato sull’assecondarlo e rabbonirlo per ottenere aperture. Nel mentre, l’Ue usava toni ben diversi e si dichiarava pronta a dialogare sui dazi ma anche a ritorsioni, se necessarie. I fattori sono molti, ma la Gran Bretagna poi ha firmato un accordo che porterà alla ridefinizione dei rapporti commerciali con gli Usa, mentre l’Unione, a meno di due settimane dalla scadenza dopo la quale partiranno i dazi (9 luglio), ancora non ha niente in mano.
Anche in occasione della visita del neocancelliere tedesco Friedrich Merz ai primi di giugno era stato notato come questi avesse molto lasciato parlare il suo interlocutore e pesato con cautela le proprie parole.
Va detto che Rutte, definito ‘Teflon Mark’ perché nulla gli rimane addosso ma tutto gli scivola via, segue anche altri percorsi. Ad esempio, sta mettendo in atto una sorta di ‘Doge’ all’interno dell’Alleanza, tagliando personale e intere divisioni con l’obiettivo di rendere la struttura più efficiente. Secondo alcuni esperti, probabilmente questi tagli vengono decisi consultando gli Usa, e sicuramente sono un argomento che può fare parecchia breccia in Trump.
Fare il ‘sussurratore di Trump’ comporta dei rischi
In sostanza, conclude Upton, “leadership significa rischiare l’imbarazzo a breve termine per un guadagno strategico a lungo termine”. Perché mentre Trump gioca a tris, Rutte sta giocando a scacchi: uno guarda a vittorie nell’immediato, l’altro guarda più lontano.
Ma ci sono anche dei rischi in questa strategia. Ad esempio, ci si può chiedere se l’olandese, definito il “sussurratore di Trump” proprio per la sua capacità di ‘tenerlo buono’, dovrà continuare così per tutto il mandato del tycoon, e dove questo porterà.
La tattica – perché secondo alcuni esperti è una tattica, e non una strategia – di utilizzare la via dell’appeasement con Trump rischia di portare a una escalation, nel senso che il presidente Usa potrebbe alzare sempre di più l’asticella. Come si è sentito spesso ripetere in questi primi mesi del secondo mandato di Trump, con i bulli non si deve mai e poi mai mostrare debolezza.
“Cosa accadrà alla prossima riunione: gli verrà conferito un titolo nobiliare, sarà nominato cavaliere, gli verrà dato un cavallo bianco e un’armatura scintillante, mentre tutti gli altri si travestono da lanzichenecchi o da valletti?”, chiede Hans-Joachim Preuß, consigliere di Politica Estera e Cooperazione internazionale, nei commenti al post di Upton. Sicuramente è un gioco pericoloso, con una posta molto alta, sottolinea l’ex diplomatica.
‘Daddy’ Trump
Un altro episodio avvenuto questa settimana mette in luce i pericoli della tattica di ‘adulare’ Trump, pubblicamente e privatamente. Mercoledì, poco prima dell’incontro con la stampa nel giorno conclusivo del vertice Nato, Rutte ha definito il presidente Usa “un papà che a volte deve usare parole forti”.
Il riferimento è alla parolaccia (ribattezzata ‘f-word’ nella stampa internazionale) usata da Trump il giorno prima parlando della violazione del cessato fuoco, da lui annunciato, da parte di Israele e Iran: “In pratica abbiamo due Paesi che combattono da così tanto tempo e così duramente che non sanno più cosa cxxxx stanno facendo”.
Trump ha fatto propria la frase di Rutte e ci ha scherzato sopra. “Lo ha fatto in modo molto affettuoso, ‘Papà, tu sei il mio papà'”, ha detto Trump, mentre il segretario di Stato Marco Rubio ridacchiava.
Per molti tutto ciò, e in generale l’approccio di Rutte, è stato davvero molto imbarazzante. Durante la conferenza stampa all’olandese è stato chiesto se chiamare Trump “papà” indicasse debolezza. Il funzionario ha replicato che “è questione di gusti” e ha ribadito i meriti del tycoon nel raggiungere l’epocale accordo tra gli Stati membri (tranne la Spagna) di destinare il 5% del Pil alla difesa.
Sarà, ma lo stesso Rutte ha poi cercato di ‘metterci una pezza’, dicendo che non considera Trump un papà (termine usato anche per indicare una persona che detiene il potere nella relazione) e che stava solo scherzando. “Per quanto riguarda il papà, non l’ho chiamato ‘papà'”, ha detto l’olandese ai giornalisti più tardi nel pomeriggio.
Insomma, l’adulazione, anche strategica, è sempre un terreno scivoloso, e il confine tra la lusinga e il servilismo a volte labile. Come quello tra genio e cringe.