Ue e Cina tra retorica e realtà. Fardella legge la triangolazione con gli Usa

Pechino è strutturalmente dipendente dall’export e produce crescita a debito. L’Europa rischia un secondo “China shock” e resta sospesa tra aperture retoriche e misure di difesa commerciale. Sfruttare le fragilità del modello cinese è possibile, ma richiede realismo strategico, spiega il professore de "l'Orientale" e direttore di ChinaMed
1 settimana fa
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Cina Ue Maros Sefcovic
Maros Sefcovic on X

Aumentano i segnali di un potenziale avvicinamento tra Bruxelles e Pechino nel pieno dell’uragano economico scatenato da Washington. Dopo il crollo dei mercati e la marcia indietro di Donald Trump, è la Cina l’unico Paese a rimanere severamente colpito dai nuovi dazi imposti dalla Casa Bianca. Mentre risponde colpo su colpo agli Usa, il Partito-Stato sta aprendo all’Europa nel tentativo di trovare partner per difendere il commercio internazionale; nelle parole del presidente Xi Jinping al premier spagnolo Pedro Sánchez, “dobbiamo resistere insieme al bullismo unilaterale”.

Del resto anche l’Ue vede la diversificazione dei partner commerciali come una soluzione all’instabilità. Specie di fronte alla strategia erratica e apertamente ostile del presidente Usa, che sta già randellando una serie di industrie strategiche per le economie europee. La stessa presidente della Commissione Ursula von der Leyen, ideatrice della strategia di “de-risking” dalla Cina, ha riconosciuto la necessità di collaborare con Pechino per garantire “stabilità e prevedibilità” all’economia globale, come ha ribadito la scorsa settimana al premier cinese Li Qiang.

La triangolazione, naturalmente, è molto complessa. E non solamente perché ora Trump sembrerebbe intenzionato a utilizzare i negoziati con altri Paesi per isolare la Cina (cosa che in effetti sta già facendo mediante la politica dei dazi). Come ricorda a Eurofocus Enrico Maria Fardella, professore all’Università di Napoli “L’Orientale” e direttore del progetto ChinaMed, Pechino è sempre un “rivale sistemico” nei documenti strategici dell’Ue. E il suo immenso surplus commerciale, che quest’anno ha superato i mille miliardi di dollari nella bilancia Cina-mondo, rimane un'”assoluta distorsione del mercato” contro cui le capitali europee (come anche Washington) hanno applicato e stanno applicando contromisure protettive.

Un modello “insostenibile”

Prima di qualsiasi calcolo occorre fare i conti con la profonda fragilità dell’economia cinese, sottolinea il professor Fardella. Nel 2024 il debito pubblico cinese ha raggiunto circa il 305% del prodotto interno lordo, un livello “mostruoso”, e cresce esponenzialmente per motivi politici, “per produrre i tassi di crescita indicati ex ante dal Partito comunista”. Per raggiungere quel 5% di crescita stabilito a inizio anno (e non calcolato a posteriori come fanno i Paesi liberaldemocratici) Pechino alloca determinati investimenti all’interno del Paese, come quelli infrastrutturali, che tendenzialmente non producono altro valore. Quindi continua a generare debito invece di crescita vera.

Nel mentre i consumi interni, nonostante gli incoraggiamenti delle autorità, rimangono anemici: motivo per cui ai produttori cinesi (e lo Stato che li sostiene) non resta che affidarsi alle esportazioni, continua l’esperto. Stando ai retroscena che ha raccolto, a fine aprile il Partito dovrebbe lanciare una serie di attesi strumenti pensati per dare sostegno e sicurezza alle famiglie, “chiamiamoli di rafforzamento dello stato sociale”, oppure incentivi al consumo, “dai coupon per cambiare gli elettrodomestici di casa ai sussidi per la cura infantile”. L’idea è quella di garantire alla popolazione la tranquillità necessaria per convertire i propri risparmi in consumo. Ma gli analisti sono d’accordo nel pensare che qualsiasi pacchetto di stimoli, per quanto ambizioso, non sarà sufficiente a rilanciare la domanda interna.

In pratica, lo stesso modello economico votato all’export che ha permesso alla Cina di crescere, abbattere la povertà e creare un’economia avanzata – “risultati ottenuti grazie alla collaborazione con l’Occidente, non ce lo scordiamo”, sottolinea Fardella – sta diventando sempre più rischioso a fronte della chiusura dei mercati globali. E soprattutto la riforma del modello è politicamente rischiosissima per il Partito comunista, che non si può permettere di inceppare il motore del Paese forzando una riconfigurazione del modello abbastanza veloce e profonda da renderlo più resiliente rispetto all’export.

Difficilmente Pechino riuscirà a generare per decreto quel livello di consumo necessario per ribilanciare l’economia cinese e quindi influenzare positivamente i rapporti fra Cina ed Europa: “se il governo decidesse di fare ciò che è necessario fare per rilanciare i consumi interni, il target del 5% diventerebbe irraggiungibile: un harakiri, chiamiamolo così, dal punto di vista economico”. Ironicamente, spiega il professore, “per risolvere i propri problemi la Cina dovrebbe diventare veramente socialista, distribuire risorse ai consumatori. E se facesse questo, potrebbe costruire rapporti molto migliori con l’Unione europea”.

I rischi per l’Europa

Il risultato è il profondo squilibrio nel sistema commerciale globale che si riflette nel massiccio surplus a favore della Cina e spaventa i Paesi con cui commercia. La conseguenza, come vista negli ultimi anni, è un progressivo irrigidimento dei partner. L’esempio più eclatante è la Germania, che più di tutti in Ue ha tratto beneficio dalla relazione commerciale con il Paese dell’estremo Oriente; nel prossimo governo sarà la Cdu di Friedrich Merz, che sulla Cina è molto più “falco” dei predecessori, a occuparsi della strategia su Pechino e della creazione di un Consiglio di sicurezza nazionale che ne studierà l’impatto sull’economia tedesca.

Fardella ricorda il “China shock” che nel 2010 ha decimato industrie europee come quella dell’alluminio e dei pannelli solari. Il rischio, oggi, è che se ne verifichi un altro, “ben più drammatico”, perché a differenza di allora i prodotti esportati dalla Cina fanno diretta concorrenza a intere classi di prodotti strategici per l’industria europea. È il caso dell’automotive, settore in cui l’Ue nel 2024 ha eretto barriere commerciali per difendere il mercato interno dalle auto elettriche Made in China, tanto avanzate tecnologicamente quanto sovvenzionate dallo Stato.

Nel 2010 i prodotti tedeschi (auto in primis) avevano un valore aggiunto molto più alto di quelli cinesi, dunque il Paese è stato protetto dallo shock delle esportazioni cinesi a basso costo, spiega l’esperto. Oggi non è più così: le auto cinesi potrebbero minare alla base l’industria dell’auto tedesca. Questo vale per intere classi di prodotti tecnologicamente sofisticati attorno a cui ruota una parte importante dell’economia tedesca. E se avvenisse un altro ‘China shock’, magari per via del dumping di prodotti cinesi dirottati in Ue dai dazi statunitensi, la Germania sarebbe in prima linea. Uno scenario “insostenibile anche dal punto di vista politico, perché porterebbe a un’impennata di disoccupazione che avrebbe poi un riflesso politico evidente”, come illustra il successo che ha avuto l’AfD, specie nella più povera Germania dell’Est.

Per questo è necessario che l’Ue continui a proteggersi, rimarca il professore. “Meglio pagare la perdita di accesso a prodotti meno costosi rispetto a offrire il fianco a un rapporto di vassallaggio industriale, che peraltro viene eterodiretto da un sistema che ha valori politici totalmente diversi dai nostri, e quindi concepisce il commercio e il flusso di capitali secondo quel prisma”. A dire: per Pechino commercio e influenza estera rientrano nella stessa strategia, e il Partito concepisce i rapporti in funzione delle sue priorità politiche, che non danno certo priorità ad aspetti come lo sviluppo democratico e i diritti umani.

Oltre le dichiarazioni

È vero che, dopo l’inaugurazione della seconda era Trump, si sono sbloccate molte conversazioni Ue-Cina. “Sappiamo che uno dei punti di discussione fra Commissione Ue e Pechino è proprio quello delle sanzioni ai pannelli fotovoltaici, rimasto in sospeso e riattivato adesso, così come il pricing sulle auto elettriche”, rileva il direttore di ChinaMed. Il tutto a valle di un incontro e diversi contatti tra il commissario europeo al Commercio, Maros Sefcovic, e il vicepremier cinese He Lifeng. “I toni sono decisamente più positivi rispetto a quelli di qualche tempo fa“.

Secondo lui con queste conversazioni si è riaperto uno spiraglio per l’adozione del Comprehensive Agreement of Investment (Cai), l’accordo commerciale Ue-Cina finalizzato a fine 2020. Il patto, che avrebbe aperto drasticamente il mercato cinese alle aziende europee, è rimasto nel congelatore da allora, soprattutto per via della crescente intesa Ue-Usa dopo la vittoria di Joe Biden su Donald Trump e l’inizio della sua amministrazione all’insegna della cooperazione transatlantica. Pechino nel mentre non è rimasta con le mani in mano, e negli ultimi anni ha fatto capire che è disposta a tornare sul dossier muovendo qualche timido passo sul fronte dei diritti dei lavoratori (anche se l’implementazione è tutta da vedere, sottolinea l’esperto).

Tuttavia, questo apparente calore tra Ue e Cina è, almeno per il momento, più parole che atti. “È chiaro che c’è la tendenza a cercare di approfittare di questa situazione, per fare che cosa? Non per cambiare la posizione europea, che è basata sui numeri”, spiega Fardella. “L’Ue spera che una Cina in difficoltà a causa dei dazi di Trump sia più disponibile a implementare le riforme che chiede da tanto tempo. Quelle che consentirebbero una maggiore apertura per gli investimenti, soprattutto europei, nel mercato cinese”. Ma le capitali europee hanno imparato che piombare nell’abbraccio cinese presenta più pericoli che opportunità.

Triangolare rispetto agli Usa

Durante il suo viaggio a Pechino lo scorso marzo, Sefcovic è stato accolto con un dono da parte cinese dall’alto valore simbolico, racconta Fardella. Si trattava di una maglietta prodotta da un’azienda cinese sanzionata dagli Stati Uniti nel 2018, “che da allora è riuscita a riorganizzare le proprie filiere e crescere in maniera dirompente. Era un modo di dire all’Europa: ‘non temiamo i dazi americani, riusciremo a farla franca e quindi a dominare le filiere che riteniamo strategiche, che sono importanti anche per voi”. Ma era prima che Trump portasse il livello medio di dazi sulla Cina al 145%.

Nella triangolazione Cina-Ue-Usa, ogni scompenso può finire per essere bilanciato da un’altra parte. Per esempio, spiega il professore. La pressione applicata da Washington può finire per convincere Pechino a optare per la dolorosa riconversione del mercato interno, sfruttando le azioni Usa per la propria propaganda e sperando di convincere la popolazione. Viceversa, potrebbe portare la Cina a puntare ancora di più sull’export, con rischio dumping altissimo per l’Ue. E magari finirà per ammorbidire la posizione cinese rispetto alle richieste di Bruxelles sull’accesso al mercato. Ammesso e non concesso che gli Usa non offrano ottimi incentivi all’Ue affinché non stringa ulteriormente i legami commerciali con la Cina: per il momento, come scrive Noah Barkin sul Wall Street Journal, è successo l’esatto opposto.

La partita da guardare è quella dell’auto elettrica, in particolare BYD, “una delle poche aziende cinesi del settore considerate solide e trasparenti”, che ha scelto l’Ungheria come hub europeo (decisione che sembra anche una ricompensa politica al premier Viktor Orbán per la sua linea ambigua rispetto all’Ue e alle relazioni transatlantiche, almeno fino a Biden, rimarca il professore). Per rinegoziare i dazi la Commissione europea intende imporre standard più rigidi agli investimenti cinesi – su dati, sicurezza informatica e trasparenza – trasformandoli in un “benchmark” normativo: secondo Fardella “strumenti del genere diventeranno trasversali” perché l’Ue “deve proteggersi dall’invasione commerciale cinese, così come stanno facendo gli Stati Uniti, ma forse in un modo un pochino più intelligente, se mi posso permettere”.

Tra dilemma e ottica mediatica

“L’Ue, anche per via delle sue divisioni interne, sembra dunque sospesa tra una transizione genetica dal punto di vista delle relazioni transatlantiche – con una Casa Bianca inedita, che le ha rivoltate come un calzino – e dall’altra parte una Cina che sorride e si mostra disponibile a stabilire un nuovo coordinamento su temi cari e delicati per l’Europa, come quelli commerciali, ma poi di fatto – osserva Fardella – non ne è strutturalmente capace“. Ora sta all’Ue leggere attentamente la situazione e identificare le opportunità per sfruttare la relativa debolezza cinese in questa fase post-dazi e ottenere condizioni migliori a livello commerciale e finanziario.

Va tenuta d’occhio Pechino, continua: un rilancio efficace dei consumi interni causerebbe un riflesso molto positivo sui rapporti sino-europei, a prescindere dalla posizione degli Usa “Questo sarebbe uno scenario ideale, anche pacifico da un certo punto di vista”, perché andrebbe a risolvere il problema della sperequazione tra produzione e consumo in Cina, e dunque la minaccia che pone per i mercati esteri. “Ma probabilmente ci sono delle interdipendenze critiche il cui superamento richiede molto più tempo rispetto a quanto sia politicamente auspicabile”.

Nel frattempo è importante non farsi abbagliare dai segnali in arrivo da Pechino, evidenzia Fardella. Serve tenere in considerazione la minaccia posta dai problemi strutturali e “profondissimi” del modello economico cinese, specie rispetto agli obiettivi che il Partito si è dato, e come questo potrà impattare il rapporto sino-europeo. È un tema che va affrontato nell’anno in cui si festeggiano i cinquant’anni di rapporto Ue-Cina, a maggio.

Dall’altra parte è cruciale ricordarsi la natura antidemocratica del Dragone, che informa la sua politica economica e che può passare in secondo piano con una figura come Donald Trump alla Casa Bianca da un lato, e alternative come la Russia di Vladimir Putin dall’altro. “È chiaro che per riflesso i cinesi sembrano dei signori, dei filosofi, e guadagnano credibilità agli occhi di un’Ue divisa e confusa. Pechino ha fatto anche dei grandi passi avanti nel rendere l’immagine del Paese affidabile. Ma va tutto messo in prospettiva: le criticità sono appena sotto il tappeto”.