La Corte europea fa traballare il piano Italia-Albania sui migranti. Con la sentenza di venerdì 4 ottobre, i giudici in Lussemburgo hanno infatti bocciato la definizione di “Paesi d’origine sicuri” utilizzata dall’Italia nel piano, minando le fondamenta legali su cui si basa l’accordo con Tirana. Questo stop potrebbe far saltare l’intero piano, mettendo il governo Meloni davanti a un bivio complesso da gestire.
La critica della Corte Ue al concetto di “Paesi parzialmente sicuri”
L’intesa siglata tra Italia e Albania prevede la creazione di centri di accoglienza in territorio albanese, nei quali migranti adulti maschi provenienti da Paesi definiti “sicuri” dovrebbero essere trattenuti mentre viene esaminata la loro richiesta di asilo.
Roma e Tirana hanno promosso il piano come una soluzione efficace per alleggerire la pressione sui centri di accoglienza italiani. L’obiettivo principale del piano Italia-Albania sui migranti è quello di ridurre i tempi di esame delle domande attraverso una procedura accelerata, limitando le garanzie previste dalle norme europee e nazionali.
Il primo di questi centri dovrebbe aprire entro ottobre a Gjader, nel nord dell’Albania. Tuttavia, la recentissima sentenza della Cgue ha messo in dubbio l’intero impianto normativo su cui si fonda questa strategia. La Corte ha infatti chiarito che il concetto di Paese d’origine sicuro, così come applicato dall’Italia, non è conforme alla normativa europea vigente.
In base alla normativa italiana, Paesi come Tunisia, Egitto, Bangladesh e altri sono considerati sicuri per gran parte della popolazione, ma con delle eccezioni per gruppi vulnerabili come le comunità LGBTQI+ o gli oppositori politici. Una situazione che, chiarisce la Corte, discriminerebbe i cittadini europei. L’avvertimento indiretto per l’Italia arriva dalla sentenza con cui la Cgue si è espressa su un caso riguardante un cittadino moldavo in Repubblica Ceca, laddove ha stabilito che non è ammissibile escludere aree geografiche o gruppi di persone da questa designazione, un principio che invalida il concetto di “sicurezza parziale” applicato dall’Italia.
Per i giudici, un Paese non può essere designato sicuro solo per alcune categorie di persone: o è sicuro per tutti o non lo è per nessuno.
Questa decisione impone una revisione delle attuali liste italiane di Paesi sicuri e potrebbe rendere illegittimo il trasferimento dei migranti nei centri albanesi.
Possibili conseguenze sul piano Italia-Albania
La sentenza può avere un impatto molto importante. Il trattenimento dei migranti nei centri albanesi richiede la convalida da parte della magistratura italiana, ma i giudici potrebbero ora bloccare queste operazioni, ritenendole non conformi alle norme Ue. Questo metterebbe in crisi la gestione quotidiana del piano, rallentando o fermando il trasferimento dei migranti.
Inoltre, qualora il piano dovesse procedere comunque, potrebbe esserci il rischio di un costoso e logisticamente complicato rimpatrio in Italia per molti migranti, i cui casi dovrebbero essere riesaminati secondo le procedure ordinarie. In questo scenario, le speranze del governo di accelerare le pratiche si scontrerebbero con un aumento dei costi e una notevole perdita di efficienza.
L’evoluzione del quadro normativo europeo
La sentenza della Corte Ue arriva in un momento delicato per le politiche migratorie europee. Mentre l’Italia tenta di alleggerire la pressione sui suoi centri di accoglienza, il quadro normativo europeo è in continua evoluzione. Nel 2026, con l’entrata in vigore del Patto per la migrazione e l’asilo, sarà nuovamente possibile introdurre designazioni parziali di Paesi sicuri, ma con criteri più rigorosi rispetto a quelli attuali.
Nel frattempo, però, gli Stati membri dovranno rispettare le attuali direttive, che non consentono tali eccezioni. Questo obbliga i governi italiano e albanese a riconsiderare le proprie strategie nel breve termine, in attesa che l’Unione europea adotti un quadro normativo più flessibile e adatto alle esigenze dei singoli Paesi.
I precedenti normativi europei relativi alla designazione di “Paesi d’origine sicuri” risalgono alla direttiva 2005/85, che originariamente permetteva agli Stati membri di designare alcune aree o categorie di persone come eccezioni.
La direttiva è rimasta in vigore fino all’adozione della direttiva 2013/32, che ha abrogato questa definizione. Con questa nuova normativa, è stato chiarito che uno Stato non può designare un Paese come sicuro solo per una parte della sua popolazione o territorio. Il cambio di rotta si era reso necessario per evitare possibili abusi delle procedure accelerate e per garantire un trattamento uniforme delle richieste di asilo in tutta l’Unione europea.
La sentenza di venerdì della Corte di giustizia dell’Unione europea è un richiamo diretto a questa evoluzione normativa. Pronunciandosi sulla richiesta di asilo del cittadino moldavo in Repubblica Ceca, la Corte ha sottolineato che l’interpretazione dell’articolo 37 della direttiva 2013/32 deve essere restrittiva e non ammette deroghe, altrimenti si correrebbe il rischio di ampliare l’ambito delle procedure accelerate in modo improprio.
Tensioni Roma-Ue
La battuta d’arresto imposta dalla Corte Ue accentua le tensioni tra l’Italia e altri Paesi membri, soprattutto quelli del nord Europa, che da tempo chiedono un approccio più condiviso e uniforme alla gestione dei migranti. Mentre l’Italia si trova in prima linea nei flussi migratori, le soluzioni che propone non sempre trovano il consenso delle altre nazioni Ue, in particolare per questioni legate al rispetto delle normative sui diritti umani. Anche l’accordo con la Turchia è stato ampiamente criticato dalle Ong e da altre organizzazioni umanitarie.
Con la sentenza della Corte di giustizia Ue, il governo italiano dovrà ora trovare un nuovo equilibrio tra l’urgenza di gestire i flussi migratori e la necessità di rispettare le leggi europee, evitando il rischio di violazioni legali che potrebbero complicare i rapporti con Bruxelles.
Senza adeguamenti sostanziali, il piano potrebbe fallire, costringendo l’Italia a trovare soluzioni alternative per far fronte alla pressione migratoria e per rispettare le rigide normative europee.
In questo scenario, l’Italia si troverà a dover navigare tra obblighi legali e necessità operative, con il rischio di una paralisi nelle politiche migratorie proprio quando la gestione dei flussi è più critica che mai.