Bastano poche parole per far tremare un’alleanza. Seduto nello Studio Ovale accanto al presidente finlandese Alexander Stubb, Donald Trump ha rilanciato la sua linea dura sulla Nato: “Forse dovreste espellerli dalla Nato, francamente”. Il riferimento è alla Spagna, considerata “ritardataria” nel rispettare il nuovo impegno di spesa militare del 5% del Pil. La frase, pronunciata durante un bilaterale con Helsinki, ha riacceso il dibattito interno sull’equilibrio degli oneri nell’Alleanza.
Trump non ha mai nascosto la sua insofferenza per gli alleati che, a suo giudizio, si affidano troppo alla protezione americana. Già durante il suo primo mandato aveva legato l’impegno degli Stati Uniti alla disponibilità degli altri membri a investire di più nella propria difesa. Ora, con il nuovo obiettivo fissato al 5%, riporta il dibattito sulla spesa militare al centro della scena, prendendo Madrid come caso emblematico. “Chiesi che si arrivasse al 5%, non al 2%, e la maggior parte accettò. Abbiamo avuto un solo Paese in ritardo: la Spagna”, ha detto con tono deciso, davanti a Stubb.
Le parole hanno immediatamente inasprito il confronto interno all’Alleanza. Il Trattato Nord Atlantico non prevede un meccanismo esplicito di espulsione di uno Stato membro, ma l’idea stessa di “esclusione” rimanda a un principio di reciprocità che Trump intende rilanciare: chi non contribuisce secondo le regole fissate da Washington rischia di trovarsi ai margini politici.
L’attacco arriva in un momento in cui la Nato sta cercando di ridefinire i propri obiettivi strategici dopo l’allargamento a 32 membri e l’entrata di Finlandia e Svezia. Per Trump, il nuovo equilibrio non può prescindere da un contributo proporzionale. Per Madrid, l’approccio americano trascura la differenza tra deterrenza convenzionale e sicurezza regionale. La frase dello Studio Ovale è diventata così la miccia di un confronto più profondo.
La soglia del 5%
Il 5% del Pil per la difesa è diventato il nuovo parametro di riferimento dell’Alleanza Atlantica. La decisione è stata assunta al vertice dell’Aia nel giugno 2025, su impulso di Washington e dei Paesi dell’Europa orientale. L’obiettivo è raggiungere entro il 2035 una ripartizione che destini il 3,5% del Pil alle spese militari dirette — personale, equipaggiamenti, logistica — e l’1,5% a investimenti collegati alla sicurezza, come infrastrutture dual-use, cyberdifesa e resilienza energetica.
Il nuovo standard sostituisce di fatto il precedente obiettivo del 2% fissato nel 2014. All’epoca, quella soglia era considerata un traguardo ambizioso; oggi molti Stati membri la definiscono già difficile da sostenere. La guerra in Ucraina e l’aumento dei costi energetici hanno complicato ulteriormente gli equilibri di bilancio, ma la pressione americana non si è allentata.
La Spagna, con una spesa stimata intorno all’1,24% del Pil nel 2024, resta tra i Paesi con il livello più basso dell’Alleanza. Il governo guidato da Pedro Sánchez ha annunciato l’intenzione di raggiungere il 2% entro il 2025, in linea con gli impegni assunti nel 2014, ma senza aderire al nuovo obiettivo del 5%. La sua posizione è stata ribadita anche nella lettera inviata al segretario generale Mark Rutte, in cui il premier ha difeso la sovranità della politica di bilancio spagnola e rivendicato “una concezione di sicurezza adattata alla realtà mediterranea”.
La decisione di innalzare la soglia di spesa è maturata a ridosso del vertice olandese, quando Washington e i Paesi dell’Est hanno spinto per un approccio più rigido. “Garantire la prontezza strategica dell’Alleanza”, è stata la formula ufficiale. Ma dietro quella definizione si intravede un equilibrio geopolitico in movimento: chi teme Mosca chiede più deterrenza, chi guarda al Mediterraneo invoca flessibilità.
Il risultato è un compromesso fragile. Il target del 5% è stato approvato con ampia maggioranza, ma la convergenza è più politica che economica. Molti alleati — dalla Germania alla Spagna, fino all’Italia — hanno chiesto di diluire l’impegno nel tempo, temendo che un aumento forzato della spesa rischi di comprimere altri settori strategici. Sullo sfondo, il Cremlino continua a considerare la Nato “in guerra con la Russia” e la pressione geopolitica resta alta.
Madrid risponde: “La nostra sicurezza ha altre priorità”
A Madrid le parole di Trump non hanno provocato scosse. Fonti del governo hanno espresso “massima tranquillità”, ricordando che la Spagna “è un membro di pieno diritto e impegnato nella Nato”. Pedro Sánchez ha ribadito più volte che l’impegno del Paese “non si misura in percentuali, ma in capacità operative”.
Per Sánchez la minaccia principale per la Spagna proviene dalla fragilità del fronte Sud e non da un rischio di aggressione convenzionale attraverso i Pirenei. Sahel, terrorismo, traffici illegali e immigrazione irregolare rappresentano, secondo il governo, minacce dirette che richiedono strumenti diversi: cooperazione, intelligence e cyberdifesa, più che un incremento massiccio di spesa militare.
Questa visione si riflette nelle missioni operative. Secondo il Ministero della Difesa, la Spagna mantiene circa 3.000 militari impegnati all’estero, in missioni che spaziano dal Baltico al Mediterraneo. Il contributo più consistente è nella missione delle Nazioni Unite Unifil in Libano, con circa 650 militari schierati nel settore Est, mentre altri contingenti partecipano alle operazioni Nato in Lettonia e Bulgaria.
Parallelamente, il governo Sánchez ha ampliato il suo profilo internazionale con un’iniziativa che ha fatto discutere anche tra gli alleati. Il Parlamento spagnolo ha approvato il decreto che istituisce un embargo totale sulle armi da e verso Israele, vietando esportazioni, importazioni e transiti di materiali militari, carburanti o tecnologie sensibili. La misura, giustificata come risposta al “massacro di Gaza”, è passata con 178 voti favorevoli e 169 contrari dopo settimane di tensione politica. Podemos, inizialmente critico, ha votato a favore pur definendo il provvedimento “parziale”, perché prevede eccezioni legate a “interessi nazionali generali”. Il decreto sarà ora convertito in legge e potrà essere modificato in Parlamento.
L’iniziativa consolida la postura autonoma del governo Sánchez in politica estera: un approccio che privilegia le leve diplomatiche e umanitarie rispetto alla proiezione militare, in linea con la sua posizione dentro la Nato.
Sánchez ha difeso questa impostazione anche nei recenti incontri bilaterali con partner europei, sostenendo che la Spagna “adempie pienamente agli obiettivi di capacità concordati in sede Nato”. L’argomento è tecnico ma politicamente rilevante: l’Alleanza consente agli Stati membri di compensare la minore spesa in bilancio con contributi operativi e capacità specifiche. Per Madrid, questa flessibilità è la chiave per restare dentro la cornice atlantica senza stravolgere le proprie priorità interne.
Resta il nodo politico. Aumentare il budget militare in un Paese dove la spesa sociale occupa una quota rilevante del bilancio sarebbe impopolare. Il governo punta quindi su una crescita graduale, sostenendo che la Nato debba misurare la “responsabilità condivisa” non solo in percentuali ma in impegno reale. È una linea che ha trovato ascolto a Bruxelles, ma che Trump considera insufficiente.
Gli equilibri interni all’Alleanza
Dietro lo scontro tra Washington e Madrid si muove un’Alleanza attraversata da differenze sempre più marcate. L’ingresso di Finlandia e Svezia ha rafforzato il fronte nordico, ma ha anche sbilanciato le priorità strategiche verso la deterrenza sul fianco Est. La Nato del 2025 riflette interessi strategici non sempre allineati: i Paesi baltici e la Polonia chiedono più mezzi e basi permanenti, mentre Italia, Spagna e Portogallo sollecitano attenzione al Mediterraneo.
Nel frattempo, il peso degli Stati Uniti resta predominante. Nel 2024 la spesa militare statunitense rappresenta circa i due terzi del totale dei membri dell’Alleanza, una quota che Trump considera “insostenibile”. Da qui la spinta a un contributo più equo, anche a costo di rompere gli equilibri diplomatici. Sul tema si è espresso anche Mark Rutte, che ha definito “un’illusione” l’idea di una difesa europea autonoma: “Senza gli Stati Uniti, altro che 5% di spesa.”
Il prossimo 15 ottobre i ministri della Difesa dei 32 Paesi membri si incontreranno a Bruxelles per esaminare i primi report sul rispetto degli impegni di spesa. Sul tavolo, anche la richiesta di alcuni governi di rinviare le scadenze intermedie, sostenuta da tredici Stati che hanno chiesto una “clausola di salvaguardia” per mantenere margini di bilancio nazionali.
Non sono previste decisioni drastiche — il Trattato non contempla un meccanismo esplicito di espulsione — ma la pressione americana per un impegno vincolante rimane alta. Lo scontro con la Spagna, più che una crisi bilaterale, è il sintomo di una ridefinizione più profonda: il passaggio da un’Alleanza fondata sulla solidarietà politica a una misurata in parametri economici. Per Trump è un modo per rimettere ordine; per molti alleati, il rischio è di incrinare proprio quel principio di coesione che tiene insieme l’Atlantico.