Quando si parla di spesa per la difesa, l’Europa sembra concentrarsi più sul presente che sul futuro. Nella primavera del 2025, la Commissione Europea ha scattato una fotografia impietosa ma lucida: gran parte dei bilanci militari dell’Unione viene assorbita da costi correnti, in particolare dagli stipendi dei militari e dei civili. Una scelta che, seppur comprensibile per chi mantiene forze armate permanenti di grandi dimensioni, rischia di comprimere gli investimenti in innovazione, tecnologia e capacità operative. Il confronto con gli Stati Uniti è impietoso: mentre oltreoceano si investe in armamenti e ricerca, nel Vecchio Continente si pagano buste paga.
Gli stipendi militari divorano i bilanci
In Europa, quando si parla di spesa militare, la voce che domina è quella degli stipendi. Secondo le previsioni di primavera della Commissione Europea, una quota significativa della spesa per la difesa è assorbita dalle retribuzioni del personale civile e militare, in particolare nei Paesi con eserciti permanenti numerosi (ad esempio, Francia con circa 205.000 militari attivi, Germania con 183.000, Italia con 170.000, Spagna con 120.000 e Polonia con oltre 120.000 unità attive secondo i dati 2023 dell’Agenzia europea per la difesa e del Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI)).
Il peso delle spese correnti è acuito anche dall’aumento dei consumi intermedi, ovvero carburanti, manutenzioni, pezzi di ricambio, utenze e servizi esternalizzati. In un contesto dove le minacce evolvono rapidamente, affidarsi in larga parte a strutture statiche può rivelarsi un limite operativo e strategico.
I costi operativi sono infatti aumentati anche per via della crescente dipendenza da appaltatori privati, soprattutto per le funzioni logistiche. Questo spostamento verso l’esternalizzazione, sebbene economicamente razionale in alcuni casi, contribuisce a rendere ancora più rigido e costoso l’apparato militare europeo. Il risultato? Un budget sempre più assorbito da spese quotidiane, mentre la capacità di proiezione militare reale resta limitata.
L’Europa investe poco in armamenti
Nel 2023 solo il 19,5% della spesa militare europea è stato destinato alla formazione di capitale, ovvero agli investimenti in infrastrutture, mezzi, armamenti e scorte strategiche. Un dato che impallidisce se confrontato con il 40,7% degli Stati Uniti, che allocano quasi la metà del proprio bilancio militare in asset concreti e durevoli. Una distanza che si traduce in una differenza strutturale: mentre l’America si prepara a future sfide con strumenti sempre più avanzati, l’Europa rischia di trovarsi scoperta.
Gli investimenti in nuove capacità – che comprendono jet, navi, blindati, munizioni e sistemi d’arma sofisticati – sono essenziali per garantire deterrenza e prontezza. Ma nell’Ue questa voce resta una Cenerentola, nonostante qualche timido aumento negli ultimi anni. Un miglioramento insufficiente, soprattutto considerando il mutato scenario geopolitico e l’esplosione della spesa globale in armamenti.
Nel frattempo, il coinvolgimento diretto nel supporto militare a Paesi terzi – come dimostra l’aumento degli aiuti militari all’Ucraina – sembra aver drenato ulteriori risorse, spostando il focus su politiche reattive piuttosto che su strategie di lungo termine.
Ricerca e sviluppo militare
Se gli investimenti in equipaggiamenti sono carenti, la situazione peggiora ulteriormente sul fronte dell’innovazione tecnologica. Nel 2023, l’Ue ha destinato appena lo 0,02% del PIL alla ricerca e sviluppo nel settore della difesa. Gli Stati Uniti, invece, investono quindici volte di più, raggiungendo lo 0,3%.
L’arretratezza europea nel comparto R&S ha effetti a catena. Meno ricerca significa meno innovazione, meno competitività e maggiore dipendenza da fornitori esterni. E questa dipendenza non è un’astrazione: riguarda tecnologie critiche come motori aeronautici, droni e sistemi di difesa antimissile, campi dove le alternative europee restano marginali o semplicemente assenti.
Un altro tallone d’Achille strutturale dell’Europa è la frammentazione industriale e operativa. Oltre 170 diversi sistemi d’arma sono attualmente in uso tra i Paesi membri dell’Ue, contro appena 30 negli Stati Uniti. Questa molteplicità complica la logistica, ostacola l’interoperabilità e impedisce economie di scala nella produzione.
La Commissione Europea evidenzia come l’industria della difesa europea, sebbene capace e dotata di una base produttiva solida, sia composta in gran parte da imprese nazionali che operano quasi esclusivamente nei rispettivi mercati interni. Questo approccio parcellizzato limita la competitività globale e rende difficile consolidare una filiera continentale integrata. La scarsa collaborazione tra produttori europei porta a costi più alti per unità, tempi di sviluppo più lunghi e scarsa efficienza. In un mondo in cui la rapidità e la massa critica fanno la differenza, l’Europa paga il prezzo di una visione ancora troppo legata ai confini nazionali. E così, mentre si moltiplicano i progetti paralleli e i prototipi non standardizzati, il sogno di una difesa comune resta lontano.
La dipendenza dagli Stati Uniti cresce
Dal 2015 a oggi, le importazioni di armi da parte dei membri europei della Nato sono più che raddoppiate. E di queste, la quota proveniente dagli Stati Uniti è passata dal 52% al 64%, secondo i dati dello Stockholm International Peace Research Institute. Gli Usa sono diventati il principale – e sempre più esclusivo – fornitore di sistemi d’arma dell’Europa. Una tendenza che si è consolidata ulteriormente con la guerra in Ucraina, che ha fatto impennare gli aiuti militari e rafforzato i legami transatlantici.
Ma non si tratta solo di numeri. Gli Stati Uniti dominano in segmenti critici: difesa missilistica, motori aeronautici, droni, radar. Ambiti in cui le alternative europee sono ancora poche, tecnologicamente immature o semplicemente non competitive. Questa asimmetria si traduce in un vincolo pesante per la capacità dell’Europa di prendere decisioni autonome in materia di sicurezza.
Pertanto, sottolinea la Commissione, “senza un maggiore consolidamento della sua industria della difesa e delle sue politiche di approvvigionamento, l’Ue farà fatica a ridurre la sua dipendenza dai fornitori esterni, cosa che limita la sua autonomia strategica”.