Come cambia la difesa della Nato nell’era ipersonica

Rutte impone il cambio di passo: più intercettori, meno inerzia. Dalla “soluzione definitiva” nei cieli Baltici al 5% di Pil in difesa entro il 2035
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Belgio, Re Philippe Assiste Alla Consegna Dei Primi Caccia F 35 Alla Base Aerea Militare Di Florennes
F-35, immagine di repertorio (Ipa/Fotogramma)

Se la Russia fosse “così idiota” da attaccare la Nato, la “guerra” che ne seguirebbe sarebbe molto “diversa” da quella che infuria in Ucraina da oltre tre anni e mezzo. A Lubiana il segretario generale della Nato Mark Rutte mette in fila priorità e tempi: missili ipersonici capaci di arrivare “a Roma o Madrid… a una velocità cinque volte superiore a quella del suono”, cieli Nato pattugliati in modo assertivo (“se costituiscono una minaccia… possiamo attuare la soluzione definitiva”), pressione sul bilancio (“non lo facciamo per mantenere contenti gli americani”), e guerra ibrida che passa anche dalla “flotta ombra” del greggio. Rutte usa frasi corte per imporre un cambio di passo: siamo in un ambiente dove contano i minuti, non i chilometri; la prima linea e il fronte interno coincidono; l’Europa deve spostare risorse reali, non solo parole.

Cieli contesi, cosa significa “soluzione definitiva” (e perché gli F-35 italiani sono diventati un caso scuola)

Rutte non ha girato attorno alla domanda che ogni capitale si pone quando un velivolo non identificato, un drone o un aereo militare russo entra nello spazio Nato: qual è la soglia d’impiego della forza? La risposta, per la prima volta formulata senza perifrasi: “Se… costituiscono una minaccia, allora possiamo attuare la soluzione definitiva; altrimenti li accompagneremo docilmente fuori dal nostro spazio aereo, come hanno fatto gli Ff-35 italiani in Estonia, un modus operandi… molto saggio”. Dentro c’è tutto il nuovo equilibrio di deterrenza: regole d’ingaggio chiare, centralità del decollo immediato, accompagnamento quando possibile, neutralizzazione quando necessario.

La linea proposta da Rutte è semplice da spiegare all’opinione pubblica e solida da un punto di vista militare: cautela attiva. Accompagnare fuori quando si può, tagliare corto quando si deve. Il messaggio implicito agli alleati è organizzativo: servono prontezza, allerta, pattuglie miste che parlino tra loro in tempo reale, copertura radarsat e una catena decisionale senza attriti. Il messaggio esplicito a Mosca è diverso: ogni test dei limiti verrà gestito con sangue freddo, ma con la capacità di usare la forza se l’evento sale di livello. È una grammatica che riduce l’alea dell’errore umano e sottrae spazio al calcolo politico del “quasi incidente”.

Sul piano pratico, Rutte ha indicato la scala dello sforzo: l’Alleanza dovrà “moltiplicare per il 400%” gli sforzi sulla difesa aerea: intercettori, sensori multi-dominio, munizionamento, addestramento congiunto, integrazione antimissile. Se la deterrenza è credibile, la “soluzione definitiva” resta un’opzione remota. Se è debole, diventa un rischio quotidiano.

I missili ipersonici riscrivono il concetto di “fianco orientale”

“Siamo tutti sul fianco orientale ora”, ha detto Rutte, descrivendo non una condizione politica ma una realtà fisica. “La nuova tecnologia russa è in grado di colpire Roma o Madrid… a una velocità cinque volte superiore a quella del suono”. Quando la finestra d’intercetto si riduce a pochi minuti, la distanza smette di essere una garanzia: è la logica stessa della difesa a dover cambiare.

Nell’era ipersonica, la densità del sensore conta quanto la velocità dell’intercettore. La risposta che Rutte chiede – “sviluppare obiettivi di capacità… per eliminare questo tipo di missili, cosa che non possiamo fare al momento” – comporta decisioni dure: piattaforme più costose, catene C2 più automatizzate, interoperabilità reale e non di facciata. L’invito a portare la spesa “core” al 3,5% del Pil entro il 2035 è il delta necessario tra lo stato dell’arte attuale e un’architettura di difesa aerea credibile contro Mach 5.

In sostanza, per Rutte la sicurezza europea oggi si misura in minuti, non in confini. Sposta il baricentro dalla geografia alla resilienza: allerta civile, infrastrutture critiche, gestione degli allarmi, ridondanza delle reti. È qui che la distinzione fra “fronte interno” e “prima linea” evapora. Se l’avviso è di pochi minuti, l’anello debole non può essere la comunicazione con i cittadini o la catena decisionale nazionale.

Non si tratta di rassegnarsi a una vulnerabilità strutturale. Si tratta di trattarla per quello che è: un problema tecnico da risolvere con investimenti coerenti e tempi certi. Rutte ha citato Paesi già oltre la soglia (Estonia, Polonia) e una maggioranza ancora sotto. Il messaggio è per chi legge i bilanci con il righello: l’asticella non è più il 2%; l’Alleanza ha messo sul tavolo un 5% complessivo fra difesa “core” e sicurezza allargata. O si accetta la scala, o si rinuncia all’obiettivo.

Perché il “fronte interno” è diventato la prima linea

“La Russia resta profondamente pericolosa”, ha detto Rutte, “anche se non è così forte come finge di essere”. Il punto è che il fronte non è solo militare. “Possiamo fare molto per rendere difficile alla Russia l’uso della flotta ombra per aggirare il price cap sul greggio”.

La catena delle petroliere non assicurate in Occidente, le bandiere di comodo, le triangolazioni di carico: è finanza di guerra liquida che alimenta il bilancio di Mosca. La Nato non è il G7, ma può aggiungere intel, tracciamento marittimo, pressione diplomatica e coordinamento con chi le leve le ha.

La stessa logica vale per sabotaggi e interferenze. “La Russia conduce una campagna contro le nostre società… L’elenco degli obiettivi… include persino spazi pubblici”. L’obiettivo non è solo fermare una turbina o spegnere una rete. È erodere il sostegno alla difesa ucraina, trasformare l’incertezza economica in ritiro politico, trasformare l’incidente in caso politico. Rutte porta l’esempio del Regno Unito e dei software di spionaggio militare russi: il fronte cyber non è più un canale tecnico per addetti ai lavori, è un moltiplicatore di rischio politico.

Da qui la proposta di trattare resilienza civile e protezione delle infrastrutture critiche come capitoli veri del piano di investimento Nato. Non un capitolo “soft”, ma una gamba dell’equilibrio strategico, insieme agli intercettori. In concreto: audit di sicurezza su porti, energia, cavi, logistica; procedure di allerta che funzionano nel weekend come nei giorni feriali; training pubblico di base (cosa fare, a chi credere, come reagire).

“La task force del Mediterraneo… oggi non c’è quasi più”, ha detto Rutte, ricordando come la potenza russa sul mare sia ormai logorata. «La caccia a Ottobre rosso oggi sembra più una caccia al meccanico più vicino». Dietro la battuta, la fotografia di una flotta allo stremo. L’illusione di una Russia ovunque in mare è finita, ma la minaccia non svanisce: cambia forma, si sposta sul sabotaggio, sulla pressione economica, sull’influenza. Ed è lì che va smontata.

Chi paga, chi decide

Rutte ha poi toccato il nervo scoperto: “Non spendiamo… per mantenere contenti gli americani. Lo facciamo… per respingere queste minacce”. È un rovesciamento utile, anche sul piano comunicativo. Toglie al dibattito l’alibi del “ce lo chiede Washington” e lo riporta al perimetro europeo: se la Russia stanzia “il 40% del suo budget per l’economia di guerra” e “dispiega almeno 1.500 carri armati, 3.000 veicoli blindati e centinaia di Iskander”, qual è la cifra che serve a parare il colpo e, soprattutto, a non farsi dettare l’agenda?

Il riferimento è esplicito: 3,5% del Pil per la difesa “core” e 1,5% per la sicurezza entro il 2035. “Alcuni di noi sono già lì… la maggior parte di noi deve ancora arrivarci”. Per Rutte, servono “percorsi credibili”. Traduzione: non promesse, ma leggi di bilancio, piani industriali, supply chain. In parallelo, la Nato ha acceso il motore PURL (Prioritized Ukrainian Requirements List): equipaggiamenti statunitensi pagati dagli alleati. “Finora 2 miliardi di dollari… si sono mossi in questo modo… Non solo mantengono l’Ucraina nella lotta, ma salvano vite”. È anche un segnale a Washington: l’Europa non è solo beneficiaria, è co-finanziatrice.

Sullo sfondo, il quadro politico transatlantico. Rutte ha ricordato che gli Usa “sono impegnati nella Nato perché sanno che un’Europa sicura, un Atlantico sicuro, un Artico sicuro sono cruciali per la loro sicurezza”. E ha citato la scena mostrata dal premier norvegese alla Casa Bianca: una base di sottomarini russi “non per attaccare la Norvegia, ma gli Usa”.

Poi c’è il piano nazionale. Rutte ha indicato l’Italia come esempio di condotta operativa (“saggia” in Estonia) e partner politico “amico” sotto la guida di Giorgia Meloni. L’Italia è hub logistico nel Mediterraneo, pedina industriale nella difesa europea e, per geografia, oggi “fianco orientale” quanto Varsavia. La richiesta – implicita ma netta – è di trasformare la fedeltà atlantica in scelte di bilancio e comunicazione pubblica che reggano nel tempo: spiegare perché spendere, come spendere, quali capacità mettere a terra.

Nel frattempo, sulla linea del fronte che non ha confini, Rutte ha fissato la cadenza politica: i ministri della Difesa si vedranno a Bruxelles “per discutere di come rafforzare ulteriormente la nostra posizione di difesa e deterrenza” e per “aumentare la produzione” in settore difesa (ossia meno annunci episodici, più scala industriale, più munizioni, più manutenzione, più addestramento, ndr). La verità è che “Siamo molto, molto più forti dei russi. E loro lo sanno”. Ma perché resti così, servono decisioni oggi che produrranno effetti tra anni.

L’altra metà della partita

Dentro un’agenda tutta europea, Rutte ha infilato un passaggio che colloca l’Alleanza nel mondo reale: “Oggi è un buon giorno per la pace e la stabilità, dato che il presidente Donald Trump è arrivato in Israele per celebrare il cessate il fuoco tra Israele e Hamas e liberare… gli ostaggi”. Parole che riconoscono all’amministrazione americana un successo in Medio Oriente e che, insieme, ricordano che “abbiamo ancora molto lavoro da fare in Europa”.

Qui torna utile la franchezza dell’ex premier olandese: “L’Ucraina è la nostra prima linea di difesa”. L’Alleanza ha “riaffermato il sostegno duraturo… perché possa difendersi oggi… e deviare qualsiasi aggressione russa in futuro”. Ma se gli Stati Uniti ridiscutono ruolo e oneri, la traiettoria di fatto è quella di chiudere il gap con investimenti e produzione europei.

Un asse che si allunga

Rutte ha posizionato la cornice globale: Russia, Cina, Corea del Nord e Iran “lavorano insieme per cercare di rimodellare l’ordine globale”. Al netto delle differenze, è un asse che produce effetti tangibili: artiglieria nordcoreana per Mosca, droni iraniani, supply chain cinesi che aggirano l’attrito delle sanzioni. La risposta dell’Alleanza non può essere la somma di riflessi nazionali. Per questo il segretario generale insiste su percentuali e piani industriali condivisi.

Il ragionamento è lineare: una minaccia composta richiede capacità componibili – difesa aerea, cyber, intelligence, produzione – che lavorano alla stessa scala. Moltiplicare per cinque gli sforzi nella difesa aerea è una curva di produzione: radar a inseguimento, sistemi C-UAS, intercettori, software. Se gli alleati europei e il Canada “eguagliano i loro investimenti… con gli Stati Uniti”…

 “Il fronte interno e la prima linea sono la stessa cosa” insiste Rutte. È l’indicazione che la vulnerabilità più sfruttabile – reti energetiche, trasporti, fiducia pubblica – sta a casa nostra.