Difesa Ue, perché Parigi ha cambiato idea sul “Buy European”? La risposta di Alessandro Marrone (Iai)

Si pensa a un tetto del 35% per i fondi convogliati ad aziende extra-Ue. Obiettivo: consolidare la base industriale europea allargando ai partner più stretti e prepararsi a un futuro incerto. L’esperto dell’Istituto Affari Internazionali tratteggia equilibri, finanziamenti e prospettive
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È caduto il veto francese alla partecipazione di aziende extra-Ue nel Piano di investimento per la difesa europea (Edip), rivela il Financial Times. Sembra che anche Parigi si sia convinta della necessità di rafforzare l’industria della difesa europea – nel senso più ampio del termine. In un contesto internazionale sempre più complesso e con la seconda presidenza di Donald Trump che getta ombre sul Vecchio continente, il pragmatismo sembra aver prevalso sulla pulsione francese verso l’autonomia produttiva.

I contorni della svolta sono ancora indefiniti, spiega a Eurofocus Alessandro Marrone, responsabile del Programma Difesa dell’Istituto Affari Internazionali. “Bisogna vedere quale sarà l’accordo finalizzato sulla normativa dell’Edip”. E va rilevato che diversi Paesi – Italia in testa con Svezia, Olanda e Germania – insistevano da anni per un certo grado di partecipazione extra-Ue, sia a livello di stakeholder esistenti, sia considerando chi finanzia ricerca e sviluppo militare nell’ambito dell’Fondo europeo di difesa (Edf).

Una questione di equilibrio

La discussione verte sulla percentuale massima di fondi da allocare a fornitori extra-Ue, progetto per progetto. Il veto francese non era tout court: si partiva da una base del 10% in considerazione del fatto che la catena del valore della difesa è “fortemente internazionalizzata”, rileva Marrone. Le industrie europee sono legate a doppio filo a Paesi non Ue ma Nato (“dunque affidabili”) come Gran Bretagna, Norvegia e Canada, per non parlare degli Usa.

L’esperto Iai evidenzia un’accelerazione dell’integrazione tra attori like-minded. “Se si vuole passare dalla ricerca e lo sviluppo alla produzione, se servono componenti e semilavorati su scala maggiore bisogna evitare i colli di bottiglia sulle forniture che renderebbero più difficile un aumento della capacità produttiva”. Ma non è un abbandono del principio “Buy European” tanto caro a Parigi: gli strumenti europei mireranno a rafforzare la base tecnologica Ue.

Per FT i francesi avrebbero indicato un compromesso: massimo 35% ad attori extra-Ue, 65% in casa. Un equilibrio capace di “garantire capacità produttive adeguate e una maggiore interoperabilità” tra Paesi alleati, rendendo più fluido il processo di cooperazione industriale e più potenti le potenziali sinergie con Regno Unito e altri Paesi NATO, continua Marrone. Nella consapevolezza che l’obiettivo va ben oltre il consolidamento della capacità produttiva Ue: “ne va della preparazione delle forze armate europee in vista di conflitti di alta intensità e lunga durata”.

È vero che l’elezione di Donald Trump, notoriamente scettico riguardo al coinvolgimento statunitense nella guerra in Ucraina, influisce sul bilanciamento tra autonomia strategica e capacità produttiva. Del resto, la promessa di acquisire più equipaggiamento Made in Usa può essere una carta valida da giocarsi nel rapporto tra Bruxelles e Washington. Però secondo l’esperto il collegamento tra la svolta francese e il prossimo inquilino della Casa Bianca è “meno marcato” di quanto non si possa pensare: “le ratio preminenti sono relative alle forze armate europee e alle loro esigenze”.

In altre parole, il potenziamento della base tecnologica europea aiuta i Ventisette a diventare attori più capaci e più in grado di assumersi le proprie responsabilità (in linea con le richieste trumpiane, peraltro).

Bastano i fondi?

Il crollo del veto di Parigi è ben accolto nelle altre capitali Ue, Roma in testa. Ma rimangono criticità legate al budget, sottolinea Marrone: la fase pilota dell’Edip (2025-2027) prevede finanziamenti di 500 milioni di euro all’anno, cifra che l’esperto giudica largamente insufficiente per ottenere l’effetto scala come da obiettivo. Il rischio è che il programma non risulti abbastanza attraente per alcuni Paesi Ue, come Germania e Polonia, che potrebbero optare per soluzioni nazionali in virtù della rapidità e del controllo sul processo.

L’ex commissario europeo Thierry Breton parlava di 100 miliardi in 7 anni – una cifra “irrealistica. Però deve esserci almeno un altro zero rispetto a quella attuale”: almeno 5 miliardi all’anno, divisi in pochi progetti chiave per evitare che i fondi si disperdano in “progetti a pioggia” da poche decine di milioni ciascuno. Per farlo occorre aggregare la domanda in programmi congiunti, in modo da costruire economie di scala, ottenere volumi produttivi maggiori (a costi per unità minori) e dunque avere un miglior ritorno sugli investimenti, ragiona Marrone.

Competitività e Ucraina

Va tenuto conto del fatto che la creazione del piano di investimento Edip riflette tempistiche più lunghe rispetto alle necessità attuali. Dunque lo strumento non va visto come una leva per la creazione di campioni europei auspicata da Mario Draghi nel suo rapporto sulla competitività. Il punto, ricorda l’esperto Iai, è consolidare la domanda e non immaginarsi fusioni: che la produzione vada in capo a una joint venture, un consorzio o un’impresa dipenderà caso per caso.

Parimenti, la questione è disgiunta da quella del supporto europeo all’Ucraina. Lo strumento della European Peace Facility viene già usato da alcuni anni per rimborsare le donazioni militari a Kyiv effettuate direttamente dagli Stati membri (l’UE non possiede assetti militari propri). Mentre servirà aspettare il 2028 per vedere i bandi e i finanziamenti Edip, che dipenderanno dal numero alla voce difesa del bilancio multiannuale 2028-2035, in fase di negoziazione nei prossimi anni. Le riflessioni sugli eurobond per finanziare la difesa appartengono a questo ambito, sottolinea Marrone: il dossier Edip risponde a una visione più a lungo termine sul futuro della difesa europea e della relativa industria.