Il 7 ottobre 2023 ha segnato un punto di non ritorno per il Medio Oriente e, per riflesso, per l’Europa. La sequenza che ne è scaturita — escalation tra Gaza e Israele, operazioni militari ripetute, crisi umanitaria, mediazioni intermittenti — ha rimesso al centro dell’agenda europea un fronte che molti ritenevano gestibile e ha proiettato nel dibattito interno un linguaggio più duro, nel quale la critica politica sul conflitto ha spesso sfiorato, e talvolta oltrepassato, la soglia del pregiudizio contro persone e comunità ebraiche.
Tra il 2023 e il 2025 si sono moltiplicate le mobilitazioni pubbliche nelle capitali dell’Unione; la maggioranza è rimasta entro i confini del dissenso legittimo, ma non sono mancati gli episodi in cui slogan, simboli e invettive hanno abbandonato il terreno della contestazione per colpire un’identità religiosa. È in questo scarto che l’antisemitismo ha lasciato la dimensione residuale per tornare a essere questione di sicurezza, di diritti e di convivenza. Il Parlamento europeo ha scelto di affrontare il nodo nella plenaria di Strasburgo, collegando la discussione sul ruolo dell’Unione negli sforzi di pace con l’esigenza di proteggere chi, dentro i confini comunitari, vive un rischio accresciuto; un’impostazione che richiama i Trattati e i piani già esistenti, ma che chiede anche un salto di qualità nell’applicazione concreta, dalla protezione dei luoghi di culto alla responsabilità delle piattaforme digitali, fino al coordinamento tra autorità nazionali quando l’odio si sposta dal web alla strada.
Perché l’escalation mediorientale è entrata nelle nostre città
Nel 2023 l’attenzione politica europea era assorbita dal fronte orientale, con la guerra in Ucraina a orientare risorse e priorità, mentre il Mediterraneo allargato veniva letto come un mosaico complesso ma relativamente prevedibile, fondato su cooperazioni energetiche in costruzione e su tensioni gestite entro margini conosciuti. L’impatto del 7 ottobre ha ribaltato quella presunzione di controllo, producendo un’accelerazione che ha raggiunto il cuore della sfera pubblica europea: mentre nel Levante si alternavano offensive, tregue parziali e negoziati a geometria variabile sostenuti da Egitto, Qatar e Stati Uniti, nel continente si allargava una discussione polarizzata, alimentata da immagini e notizie in tempo reale, che ha spinto centinaia di migliaia di persone a scendere in piazza e ha richiesto alle autorità un equilibrio difficile tra libertà di manifestazione e prevenzione dei reati d’odio.
In questa sovrapposizione di livelli — geopolitico, mediatico, sociale — la questione antisemita è riemersa con forza, non perché il conflitto “spieghi” l’odio, ma perché lo rende più visibile, lo sposta in superficie e lo confonde con la legittima presa di posizione su uno scenario di guerra. Il Parlamento europeo ha risposto inserendo all’ordine del giorno un dibattito ad hoc sull’aumento degli episodi di antisemitismo e sui pregiudizi persistenti nei confronti degli ebrei nell’UE, legandolo all’altro pilastro della linea europea — il sostegno alla prospettiva di due Stati e la tutela dei civili — per affermare che la protezione delle minoranze non è un capitolo separato della politica estera, ma una responsabilità interna che misura la qualità stessa della cittadinanza europea.
La mappa dell’antisemitismo
Per comprendere la natura del problema conviene partire dalle evidenze documentate. Dal 7 ottobre 2023 a oggi, in Italia si contano (dati del Dipartimento della Pubblica Sicurezza) 351 episodi di antisemitismo: 94 danneggiamenti o imbrattamenti, 188 casi di ingiurie o minacce, 4 episodi di lesioni o percosse e 65 casi di propaganda o istigazione all’antisemitismo; 98 persone denunciate e 2 arrestate. È una sequenza che fotografa una realtà non marginale: l’ostilità si manifesta prima di tutto nel linguaggio (minacce, insulti, propaganda), passa per i segni nello spazio urbano (scritte, adesivi, simboli deformati), raramente sfocia in violenza fisica, ma quando accade colpisce luoghi e momenti identitari.
Nel frattempo, l’Agenzia dell’Ue per i diritti fondamentali (FRA) ha registrato nel 2024 un dato che spiegava già la vulnerabilità: il 96% degli ebrei intervistati dichiarava di aver incontrato forme di antisemitismo nell’anno precedente alla rilevazione. Dopo il 7 ottobre, il peggioramento segnalato da media e centri di monitoraggio nazionali (Francia, Germania, Regno Unito) ha reso più visibile ciò che prima restava sommerso. L’Europa, dunque, si muove su due piani: quello oggettivo delle denunce e degli atti perseguiti (come in Italia) e quello percettivo che riguarda sicurezza quotidiana, fiducia nelle istituzioni, disponibilità a denunciare. In mezzo, un aspetto che spiega la nuova diffusione: la sovrapposizione con il conflitto in Medio Oriente, che ha trasformato la discussione pubblica in un canale di accelerazione del pregiudizio. Non basta dire “sono episodi isolati”: la persistenza nel tempo e l’ampiezza geografica indicano un fenomeno che richiede una risposta articolata — dalla prevenzione all’applicazione delle leggi — senza confondere la critica a politiche di governo con l’attacco a persone o comunità.
Antisemitismo 2.0
La gran parte delle manifestazioni in Europa è rimasta entro i confini del dissenso legittimo; tuttavia, in più città si sono registrate derive antiebraiche: cori che negano la Shoah o inneggiano a gruppi armati, simboli nazisti accostati alla stella di David, scritte su scuole e sinagoghe. Il punto critico è il passaggio dalla protesta alla stigmatizzazione degli ebrei in quanto tali: è qui che la libertà di critica alle politiche di un governo viene meno e subentra l’antisemitismo. Nelle università la frizione si è vista in occupazioni, assemblee tese, campagne di boicottaggio che, in alcuni casi, hanno oltrepassato la soglia della pressione identitaria. Ma è soprattutto online che l’odio si moltiplica: su X, TikTok e Telegram circolano immagini manipolate, teorie del complotto, liste-vergogna; gli algoritmi premiano contenuti polarizzanti e l’effetto emulazione fa il resto. Il quadro regolatorio europeo oggi è più definito: il Digital Services Act obbliga le piattaforme molto grandi a valutare e mitigare i rischi sistemici legati alla disinformazione e all’odio, a garantire trasparenza e accesso ai dati per i ricercatori, a collaborare con le autorità; il Codice di condotta contro i discorsi d’odio (rafforzato nel 2025) impegna i firmatari a revisare rapidamente le segnalazioni qualificate (con target di performance pubblici), senza sostituire la responsabilità penale quando l’odio integra un reato. La partita, però, non si gioca solo su regole e sanzioni: serve una filiera di prevenzione (programmi scolastici su cittadinanza digitale e storia europea), protezione (piani di sicurezza mirati su luoghi di culto e eventi sensibili), persecuzione (coordinamento tra polizie postali e procure) e trasparenza (dati comparabili su segnalazioni e rimozioni). È un approccio “a tenaglia” che evita sia la rimozione simbolica del problema sia l’idea, altrettanto ingannevole, che basti spegnere un profilo social per spegnere l’odio.
Che cosa fa l’Unione
Le istituzioni europee hanno fissato con chiarezza i confini pubblici. Dopo l’aggressione con auto e coltello davanti a una sinagoga di Manchester, durante Yom Kippur, l’Alto rappresentante Kaja Kallas ha scritto su X: “L’odio, l’antisemitismo e la violenza non hanno posto nella nostra società.” La presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha confermato: “Dobbiamo continuare a combattere l’antisemitismo in tutte le sue forme”. Non sono solo dichiarazioni di condanna; sono l’asse su cui la Commissione ha chiesto agli Stati membri di rafforzare protezioni fisiche (sinagoghe, scuole, centri comunitari), contrasto ai reati d’odio e cooperazione con le piattaforme online.
A Strasburgo, il Parlamento europeo sta discutendo in questi giorni due fronti intrecciati: il contributo dell’Ue agli sforzi di pace e alla soluzione a due Stati e, in parallelo, la valutazione dei recenti episodi di antisemitismo e dei pregiudizi persistenti nell’Unione, con un focus su strumenti concreti (armonizzazione dei reati d’odio, istruzione e memoria, applicazione del regolamento sui servizi digitali, efficacia del codice di condotta contro i discorsi d’odio illegali online). Nella risoluzione dell’11 settembre 2025 l’Aula ha già fissato alcuni punti: aiuti umanitari a Gaza, richiesta di cessate il fuoco e rilascio degli ostaggi, riaffermazione della prospettiva due Stati; allo stesso tempo, condanna dei “crimini barbari” di Hamas e delle azioni militari indiscriminate che colpiscono i civili, sostegno alle indagini su violazioni del diritto internazionale e sanzioni verso soggetti violenti. Dentro quella cornice politica, la tutela delle comunità ebraiche in Europa non è un capitolo separato, ma un banco di prova di credibilità interna: proteggere i diritti qui, mentre si sostiene un percorso di pace là. È il messaggio che i vertici istituzionali stanno ripetendo: sicurezza e libertà non sono alternative, ma condizioni che vanno garantite insieme.
Cosa succede oggi a Strasburgo (e cosa potrà cambiare subito)
Nella plenaria di Strasburgo di questo pomeriggio, gli eurodeputati discutono il ruolo dell’UE nella crisi mediorientale – sulla base della proposta di accordo avanzata dagli Stati Uniti e dei colloqui in corso in Egitto – e mettono a verbale le azioni interne per contrastare l’antisemitismo. In agenda: come proteggere meglio le comunità a rischio; se e come criminalizzare in modo armonizzato i discorsi e i reati d’odio; quali iniziative educative rafforzare (memoria, curricoli scolastici, formazione delle forze dell’ordine); come rendere più efficace l’applicazione del DSA e del codice di condotta sulle piattaforme, con report pubblici sulle performance di rimozione e cooperazione. È una seduta che collega tre piani: la diplomazia (cessate il fuoco, ostaggi, prospettiva di due Stati), la sicurezza (protezione fisica e prevenzione dell’odio), i diritti (tutela delle minoranze senza comprimere la libertà di espressione e di protesta).
Il passaggio di oggi può trasformare quella cornice in istruzioni operative: criteri comuni per la protezione dei luoghi di culto, linee guida per le autorità scolastiche, canali dedicati con le piattaforme digitali, una raccolta omogenea dei dati sui crimini d’odio. Non è un testo sulla memoria: è un’agenda sulla convivenza. E si misura nell’immediato, nelle strade e negli spazi pubblici dove il confine tra opinione e discriminazione non può essere lasciato all’improvvisazione.