L’Ungheria di Viktor Orbán continua a tracciare una rotta che appare sempre più divergente rispetto ai valori fondanti dell’Unione europea. Il 29 aprile, il Parlamento ungherese ha approvato il recesso dal Tribunale penale internazionale (Tpi), un atto fortemente simbolico e giustificato dal governo come reazione all’“eccessiva politicizzazione” della Corte.
Tuttavia, il momento in cui questa decisione è stata annunciata, cioè durante una visita ufficiale del premier israeliano Netanyahu, attualmente oggetto di un mandato d’arresto del Tpi, ha fatto insorgere sospetti sulla natura politica dell’iniziativa.
E mentre Budapest sembra voltare le spalle alla giustizia internazionale, in patria rafforza un’agenda interna che Bruxelles considera ostile ai valori comuni.
Ungheria, tra diritti Lgbt+ e Pride vietati
Il 15 aprile la Commissione europea ha comunicato che analizzerà con attenzione gli emendamenti costituzionali che vietano il Pride in Ungheria e impongono ulteriori restrizioni alla comunità Lgbt+. “Siamo pronti ad agire”, ha dichiarato la portavoce Eva Hrncirova, citando precedenti sanzioni già comminate a Budapest in passato.
Media sotto controllo, la denuncia a Bruxelles
Ma il fronte più incandescente è forse quello della libertà di stampa. Due testate ungheresi, tra cui Magyar Hang, hanno formalmente denunciato alla Commissione europea un sistema di sussidi governativi che avrebbe destinato oltre 1,1 miliardi di euro ai media filogovernativi tra il 2015 e il 2023.
Secondo i ricorrenti, si tratta di un abuso sistemico che ha distorto il mercato dell’informazione e compromesso la libertà di espressione nel Paese, in violazione delle regole sugli aiuti di Stato e del diritto dei cittadini a ricevere un’informazione pluralista.
Lo studio legale Euclid Law con sede a Bruxelles e l’economista Kai-Uwe Kühn, già consulente della Direzione generale della Concorrenza, hanno documentato una situazione in cui la pubblicità governativa ha premiato solo i media allineati al partito di Orban ‘Fidesz‘, mentre quelli critici sono stati completamente esclusi dal mercato pubblicitario statale.
Una strategia, si legge nella denuncia, che “ha alterato in modo irreversibile l’equilibrio democratico”.
La Commissione, che già dal 2019 indaga sulla concentrazione mediatica in Ungheria, potrebbe ora aprire un nuovo capitolo di scontro con Budapest. E, se le violazioni venissero confermate, la procedura ai sensi dell’Articolo 7 del Trattato sull’Unione europea — già attivata nel 2018 per minacce allo stato di diritto — potrebbe conoscere un’accelerazione.
Articolo 7: una “nuclear option” difficile da usare
L’Articolo 7 del Trattato sull’Unione europea (Tue) è il meccanismo previsto dai trattati per rispondere a gravi violazioni dei valori fondamentali dell’Unione, come la democrazia, i diritti umani e lo stato di diritto. Prevede due fasi: un primo passaggio “preventivo”, già avviato contro l’Ungheria nel 2018, e una seconda fase sanzionatoria, che potrebbe portare, in teoria, alla sospensione del diritto di voto del Paese in seno al Consiglio dell’Unione.
Ma questo secondo passaggio richiede l’unanimità degli altri Stati membri. E finora, la Polonia ha sempre difeso l’alleato ungherese, rendendo impraticabile la “nuclear option”. Spesso definito tale, l’Art.7 TUE prevede la sospensione del diritto di voto sulle decisioni dell’Ue.
Verso l’Hungrexit?
Il clima tra Bruxelles e Budapest è tesissimo. Le continue sfide dello Stato ungherese ai principi europei – dalla giustizia internazionale alla libertà dei media, passando per i diritti delle minoranze – sollevano una domanda sempre più pressante: quanto a lungo l’Ue tollererà un membro che sembra voler riscrivere le regole del gioco dall’interno?
Già nel 2015, lo scrittore ed economista Jacques Attali lanciava un allarme che oggi suona drammaticamente attuale. In un editoriale dal titolo provocatorio, Attali sosteneva che, più della Grecia, fosse l’Ungheria a meritare un’uscita dall’Unione europea: “dovremmo parlare di Hungrexit”, scriveva.
Denunciava il governo Orbán per le scelte politiche in materia di migrazione e rifugiati, l’uso della religione per giustificare discriminazioni e un crescente autoritarismo che minava lo stato di diritto. Attali evidenziava il paradosso di un Paese che, dopo essere stato accolto dall’Europa come vittima della repressione sovietica, oggi nega accoglienza e pluralismo. Un monito rimasto inascoltato, che oggi torna con forza mentre Bruxelles si interroga su come gestire un membro che sfida apertamente le fondamenta etiche e giuridiche dell’Unione.
L’Ungheria non può essere “espulsa” dall’Unione, ma l’isolamento politico e la sospensione dei diritti di voto sarebbero già un colpo durissimo. E se la Commissione darà seguito alla denuncia sui media, le sanzioni economiche potrebbero non farsi attendere.
Nel frattempo, Orbán sembra pronto a resistere. Ma il suo modello, sempre più distante dagli standard europei, potrebbe alla lunga rendere insostenibile la permanenza dell’Ungheria nell’Unione così com’è oggi.