Alla fine ha vinto il mercato. Oggi Bruxelles ha fatto l’annuncio che gli industriali attendevano con ansia e che gli ambientalisti temevano come il crollo di una diga: sarà possibile immatricolare auto a motore termico anche dopo il 2035.
Il divieto totale di vendita per le auto con motore a combustione interna, originariamente fissato come invalicabile colonna d’Ercole per il 2035, viene revocato dopo un intenso dibattito tra le case automobilistiche (appoggiate da molti Paesi Ue, Italia in primis) e Bruxelles.
In base alla revisione del Regolamento auto dell’Ue, le aziende non saranno più costrette a ridurre del 100% le emissioni delle auto prodotte dal 2035 in poi (ovvero a eliminare completamente i motori a benzina e diesel), ma a diminuire le emissioni medie di flotta del 90% rispetto ai valori del 2021.
Sembra una differenza aritmetica da poco, ma in realtà è la chiave che riapre i cancelli delle fabbriche a motori termici, ibride plug-in e biocarburanti, strizzando l’occhio a quella “neutralità tecnologica” richiesta a gran voce dall’Italia. E, soprattutto, dando una nuova boccata d’ossigeno alle aziende e ai lavoratori dell’automotive europeo, mai caduto così in basso come negli ultimi due anni.
Dal dogma del “ban” alla realpolitik industriale
Per capire la portata di questa svolta, bisogna riavvolgere il nastro al 2022, quando l’Europa sembrava aver scelto una strada a senso unico. La base giuridica era solida: il Regolamento (UE) 2019/631, emendato per imporre un taglio del 100% della CO₂ alle nuove immatricolazioni dal 2035. L’obiettivo era chiaro: trasformare il parco auto continentale forzando la mano ai costruttori con tappe intermedie dolorose (-15% nel 2025, -37,5% nel 2030) e multe draconiane da 95 euro per ogni grammo di CO₂ in eccesso. A marzo, la seconda commissione von der Leyen aveva concesso più tempo alle aziende per mettersi in regola, senza eliminare però lo spauracchio del 2035. Essendo il Green Deal una creatura (soprattutto) sua, Vdl ha provato a difendere a tutti i costi il Regolamento Auto nonostante le richieste del “suo” Ppe, auspicandosi che le vendite sarebbero aumentate e che il mercato avrebbe, alla fine, reagito positivamente allo stop del 2035.
La realtà, tuttavia, si è dimostrata molto più ruvida delle aspettative di Bruxelles.
Già nel 2024, le avvisaglie di una crisi strutturale erano evidenti, con l’Italia e la Germania in prima fila nel chiedere una revisione anticipata delle clausole di salvaguardia, preoccupate per la tenuta di una filiera che vale milioni di posti di lavoro e che tanti ne ha persi in circa 24 mesi.
La decisione di oggi non cancella l’elettrico, ma ammette implicitamente che la “transizione forzata” si stava muovendo su binari che l’economia reale non riesce a seguire.
La realtà dei numeri: perché il 100% era diventato insostenibile
A far crollare il muro dell’intransigenza sono stati tre fattori:
- i costi per i cittadini;
- l’inadeguatezza delle infrastrutture;
- la pressione geopolitica.
Con il Green Deal (di cui il Regolamento Auto è un pilastro), Bruxelles aveva scommesso sulla rapida discesa dei prezzi delle auto a batteria (Bev), ma la realtà del mercato ha raccontato una storia diversa.
Ancora oggi, il prezzo medio di un’auto elettrica in Europa oscilla tra i 30.000 e i 45.000 euro, una cifra che, rapportata agli stipendi medi netti, rende l’acquisto del nuovo un miraggio per la classe media, quella che avrebbe dovuto guidare la transizione. La promessa delle “city car” accessibili sotto i 25.000 euro si è scontrata con margini industriali risicati e la concorrenza spietata dei produttori cinesi, che affrontano costi di produzione inarrivabili per l’Europa.
A questo si aggiunge il paradosso dei costi di esercizio. Se è vero che ricaricare a casa costa circa 5-6 euro per 100 km, chi non dispone di un garage – ovvero la maggioranza di chi vive nelle grandi città – si trova ostaggio delle colonnine pubbliche. Qui le tariffe, schizzate tra 0,50 e 0,90 €/kWh, portano il costo di un “pieno” elettrico a competere, se non a superare, quello della benzina (circa 12-13 euro per 100 km su un’utilitaria efficiente). Una forbice economica che ha raffreddato l’entusiasmo dei consumatori, trasformando l’auto elettrica da soluzione di massa a prodotto premium.
Anche sul fronte delle infrastrutture, l’Europa viaggia a due velocità. L’Italia ha superato i 70.000 punti di ricarica, ma la loro distribuzione a macchia di leopardo – concentrate al Nord e nei grandi centri – lascia scoperte intere aree interne, alimentando l’ansia da ricarica che frena le vendite.

La svolta del 90%: cosa cambia davvero nei concessionari
La vera novità tecnica del pacchetto di dicembre 2025 è l’introduzione del “target -90%”. In termini pratici, questo non significa che ogni auto venduta dovrà emettere il 90% in meno, ma che la media delle auto vendute da ogni costruttore dovrà rispettare questo calo di emissioni.
Questo crea uno “spazio residuale” che sembra piccolo e invece è vitale. Gli analisti spiegano che, con questo nuovo parametro, un costruttore potrà continuare a vendere un certo numero di auto con motore termico o ibrido, a patto di “compensarle” con una quota massiccia di veicoli elettrici. È una proporzione grossolana di circa una vettura a combustione ogni 12-20 elettriche (il rapporto specifico dipenderà dai livelli di emissione di quelle a motore termico).
Non è un “liberi tutti”, ma è sufficiente per salvare segmenti di mercato dove l’elettrico non ha senso economico o funzionale, come le piccole utilitarie low-cost per chi fa pochi chilometri o i veicoli commerciali per le aree rurali. Inoltre, questa mossa elimina l’ipotesi – discussa fino a pochi giorni fa – di un ulteriore target del 100% al 2040, lasciando di fatto il motore a scoppio in vita a tempo indeterminato, seppur come attore non protagonista.
E-fuels e biocarburanti: la scialuppa di salvataggio
La revisione apre ufficialmente le porte alla “neutralità tecnologica” tanto invocata da Berlino e Roma. Il nuovo regolamento riconosce un ruolo esplicito ai veicoli alimentati con biocarburanti avanzati e carburanti sintetici (e-fuels), purché certificati. Se fino a ieri gli e-fuels erano visti come un capriccio per le supercar tedesche, oggi diventano una tecnologia ponte legittimata, capace di decarbonizzare il parco circolante esistente senza rottamare milioni di veicoli funzionanti.
Anche le ibride plug-in (Phev), spesso accusate di essere “finte ecologiche” per via di emissioni reali superiori a quelle dichiarate, trovano una nuova legittimità normativa, a patto di rispettare standard di utilizzo in modalità elettrica molto più severi.
Le reazioni: tra sollievo industriale e rabbia verde
La notizia ha spaccato l’Europa in due blocchi. Da un lato i governi di Italia e Germania, insieme a gran parte della filiera industriale tradizionale (componentisti, produttori di motori), esultano per aver evitato il baratro occupazionale. Per loro, il -90% è il compromesso necessario per non regalare le chiavi dell’auto europea a Pechino e per gestire una riconversione che altrimenti avrebbe avuto costi sociali devastanti, facendo perdere migliaia di posti di lavoro.
Dall’altro lato, la reazione del mondo ambientalista è furiosa. Organizzazioni come Transport & Environment (T&E) definiscono la decisione un “passo indietro dannoso” che mina la credibilità climatica dell’Unione. Il timore è che allentare la pressione oggi significhi condannare i trasporti – già responsabili del 29% delle emissioni totali Ue – a rimanere il “cattivo” della classe climatica ancora per decenni. Secondo i report climatici, rallentare ora significa dover chiedere sforzi immani ad altri settori o, peggio, mancare clamorosamente l’obiettivo della neutralità climatica al 2050 .
Un futuro a due velocità?
La decisione di oggi chiude un capitolo ma ne apre uno pieno di incognite. Il rischio, sottolineato da molti osservatori, è che l’Europa si spacchi in una transizione a due velocità: un Nord ricco e pieno di infrastrutture che corre verso l’elettrico, e un Sud (Italia inclusa) che rimane ancorato a un parco auto più vecchio e termico, sfruttando fino all’ultimo decimale quel “90%” di margine.
Inoltre, resta il dubbio sul fronte industriale: rallentare la corsa all’elettrico aiuterà davvero i costruttori europei a riorganizzarsi, o darà solo più tempo ai giganti cinesi e americani (forti dei sussidi dell’Inflation Reduction Act) per consolidare il loro vantaggio tecnologico?
La risposta potrà darla solo il mercato, ma di certo il motore a scoppio ha smesso di avere una data di scadenza stampata sul monoblocco.
