L’Unione Europea ha deciso di spostare in avanti la frontiera dell’asilo. Non solo sul piano geografico, con la possibilità di esaminare e trattenere i richiedenti in Paesi terzi, ma soprattutto sul piano giuridico, restringendo gli spazi di accesso alla protezione e accelerando il percorso verso il rimpatrio per chi viene giudicato “non avente diritto”.
Con l’intesa raggiunta dai ministri dell’Interno e della Giustizia a Bruxelles, il Consiglio Ue ha definito la propria posizione negoziale su tre pilastri: revisione del concetto di Paese terzo sicuro, prima lista comune dei Paesi di origine sicuri, nuovo regolamento rimpatri con hub esterni e obblighi più stringenti per i migranti irregolari. È il passaggio che molti governi invocavano da tempo per “riprendere il controllo” del sistema, e che l’esecutivo italiano rivendica esplicitamente come una svolta politica ottenuta in sede europea. Le modifiche si inseriscono in un percorso avviato con il Patto migrazione-asilo del 2024, che aveva già introdotto regole più vincolanti per le procedure di frontiera, lasciando però irrisolti nodi strutturali nella gestione dei rimpatri e nella frammentazione dei criteri applicati dagli Stati membri.
1. Paesi di origine sicuri e Paesi terzi sicuri
Il primo tassello riguarda l’estensione e l’armonizzazione a livello europeo dei concetti di Paese di origine sicuro e di Paese terzo sicuro, che diventano il filtro preliminare attraverso cui devono passare sempre più domande di asilo. La lista comune Ue dei Paesi di origine sicuri comprende, oltre agli Stati candidati all’adesione (Albania, Bosnia ed Erzegovina, Georgia, Macedonia del Nord, Moldavia, Montenegro, Serbia, Turchia), anche Bangladesh, Colombia, Egitto, India, Kosovo, Marocco e Tunisia. Per i cittadini di questi Paesi, le richieste di protezione saranno esaminate in via accelerata, spesso direttamente alla frontiera o nelle zone di transito, partendo dal presupposto che “generalmente non sussiste alcun rischio di persecuzione”, come ha affermato il ministro danese Rasmus Stoklund, secondo cui il primo elenco comune contribuirà a procedure “più rapide ed efficienti e al rimpatrio di coloro che non necessitano di protezione”.
L’adozione di una lista comune riduce la frammentazione tra ordinamenti nazionali, che negli ultimi anni aveva prodotto valutazioni divergenti sul medesimo Paese di provenienza e un contenzioso significativo. La convergenza su criteri unificati incide direttamente sull’attività delle autorità competenti, formalizzando un presupposto giuridico che permette di concentrare le risorse sulle domande a più alta probabilità di accoglimento e di comprimere ulteriormente i tempi nei casi ritenuti manifestamente infondati. La qualificazione di Paese di origine sicuro si basa su una “elevata soglia di sicurezza”: assenza di conflitti armati, assenza di misure restrittive sistemiche sui diritti fondamentali, e un tasso di decisioni positive molto basso a livello europeo, secondo quanto stabilito dalla normativa Ue. La Commissione è chiamata a monitorare in modo continuativo la situazione nei Paesi candidati e a segnalare quando uno degli indicatori cessa di essere soddisfatto, con la possibilità di sospendere la designazione per intero o per porzioni del territorio o della popolazione. Parallelamente, il regolamento lascia agli Stati la facoltà di mantenere propri elenchi nazionali, più estesi di quello Ue.
Ancora più incisiva è la revisione del concetto di Paese terzo sicuro: una domanda potrà essere dichiarata inammissibile, quindi respinta senza esame nel merito, se il richiedente avrebbe potuto chiedere protezione in un Paese extra-Ue considerato sicuro, anche solo per esserci transitato. Le nuove norme prevedono tre opzioni: un legame tra il richiedente e il Paese terzo; il semplice transito; oppure l’esistenza di un accordo o di un’intesa che preveda l’esame della domanda nel Paese terzo. Il legame individuale smette di essere requisito obbligatorio, aprendo la strada a intese che consentono di trasferire richiedenti asilo verso Stati con cui non hanno alcun collegamento pregresso. L’unico limite esplicito riguarda i minori non accompagnati, esclusi dall’applicazione del concetto di Paese terzo sicuro basata su accordi con Paesi extra-Ue.
2. Il regolamento rimpatri
Il secondo pilastro è il regolamento sui rimpatri, pensato per colmare quello che i governi definiscono un “fallimento strutturale” del sistema attuale: “tre migranti irregolari su quattro nei confronti dei quali è stata emessa una decisione di rimpatrio nell’Ue continuano a rimanere, invece di tornare a casa”, ha ricordato Stoklund.
Il nuovo testo introduce per la prima volta una serie di obblighi diretti a carico dei cittadini di Paesi terzi in soggiorno irregolare: lasciare il territorio dello Stato membro, collaborare con le autorità, rendersi disponibili alle convocazioni, fornire documenti di identità o di viaggio, cedere i propri dati biometrici ed evitare qualunque condotta fraudolenta volta a ostacolare la procedura. Il mancato rispetto di questi obblighi avrà conseguenze immediate: gli Stati membri potranno rifiutare o ridurre benefici e indennità, revocare permessi di lavoro e prevedere sanzioni penali che, secondo la posizione del Consiglio, devono includere anche la reclusione.
Uno degli effetti più rilevanti del nuovo impianto riguarda la standardizzazione delle fasi amministrative. L’introduzione di obblighi puntuali riduce il margine di discrezionalità tra ordinamenti e crea un quadro più simmetrico nelle procedure, elemento che le cancellerie considerano cruciale per aumentare il numero di rimpatri effettivamente eseguiti. La combinazione tra obblighi, sanzioni e periodi di trattenimento più estesi mira a limitare le interruzioni del procedimento che finora hanno reso difficile dare seguito alle decisioni di espulsione. Il regolamento prolunga inoltre i tempi massimi di trattenimento amministrativo e consente di estendere in modo significativo i divieti d’ingresso, fino al bando a tempo indeterminato nei confronti delle persone considerate un rischio per la sicurezza.
Il Paese di rimpatrio non dovrà necessariamente coincidere con quello d’origine: potrà essere un Paese terzo con cui l’Ue o uno Stato membro ha concluso un accordo che preveda l’accettazione di chi non ha più diritto a restare nello spazio europeo. Quegli accordi dovranno, almeno sulla carta, rispettare gli standard internazionali in materia di diritti umani e il principio di non respingimento. Dentro questo schema si inserisce la possibilità di istituire “hub di rimpatrio” in Paesi terzi, che potranno fungere sia da punto di transito prima del ritorno nel Paese finale, sia da destinazione ultima, se così stabiliscono le intese. È il modello evocato da Stoklund, che ha definito “un esempio interessante” il tentativo dei Paesi Bassi di negoziare con l’Uganda un centro per i rimpatri, e che il ministro italiano Matteo Piantedosi vede già materializzarsi nei Cpr di Gjader e nel centro di Shengjin in Albania, “primo esempio di quegli hub per il rimpatrio” cui si riferiscono i nuovi regolamenti. A complemento di queste innovazioni, il testo introduce l’European Return Order (Ero): un modulo standard che dovrà essere inserito nel Sistema d’Informazione Schengen, così che ogni decisione di rimpatrio sia immediatamente visibile agli altri Stati membri e possa essere eseguita anche da un Paese diverso da quello che l’ha emessa.
3. L’Ue verso un sistema di rimpatrio integrato
Il terzo livello di intervento riguarda la cooperazione tra Stati membri e il superamento di una delle criticità strutturali del sistema europeo: la possibilità per chi è destinatario di un provvedimento di rimpatrio di spostarsi all’interno dell’Ue per sottrarsi all’esecuzione della misura. Il regolamento prevede il riconoscimento reciproco delle decisioni di rimpatrio emesse da un altro Stato membro: l’Italia, per esempio, potrà eseguire direttamente un decreto di espulsione adottato dalla Francia, senza avviare una nuova procedura, e viceversa. In una prima fase questo meccanismo resterà facoltativo, ma la Commissione dovrà valutarne il funzionamento due anni dopo l’entrata in vigore e, se lo riterrà opportuno, proporne la trasformazione in obbligo generalizzato.
L’eventuale passaggio da un sistema volontario a uno vincolante segnerebbe un cambiamento rilevante nella governance dei rimpatri, perché trasformerebbe la decisione di un singolo Stato in un atto operativo valido sull’intero territorio dell’Unione. Una simile evoluzione richiede interoperabilità completa tra banche dati, procedure uniformi e capacità di esecuzione coordinata: condizioni che in passato hanno spesso rallentato la cooperazione giudiziaria e amministrativa in materia migratoria. Sul piano politico il governo Meloni legge questo impianto come la conferma della propria linea. Piantedosi rivendica che l’Italia “ha giocato un ruolo importante per l’approvazione di questi regolamenti” e che nelle politiche migratorie dell’Ue si è prodotta la “svolta che il governo italiano ha chiesto”. La definizione di una lista europea dei Paesi di origine sicuri, comprendente Egitto, Tunisia e Bangladesh, viene considerata “in linea con i provvedimenti già adottati dall’Italia”; il protocollo con l’Albania, con le procedure accelerate di frontiera nei centri di Gjader e Shengjin, diventa il caso di scuola che il nuovo quadro normativo tende a generalizzare. Roma ha lavorato in asse con Parigi e Berlino, trovando in Danimarca un alleato di peso: lo stesso Stoklund, socialdemocratico, sostiene una strategia che punta a spostare l’esame delle domande di asilo in Paesi terzi sicuri “al fine di eliminare gli incentivi a intraprendere viaggi pericolosi verso l’Ue”.
Sul versante opposto, il primo ministro ungherese Viktor Orban denuncia su X l’avvio di una vera e propria “ribellione” contro Bruxelles, accusata di voler costringere Budapest a “pagare ancora di più o ad accogliere migranti”, con l’annuncio che l’Ungheria “non applicherà le misure del Patto sulla Migrazione”. Nella maggioranza qualificata che ha permesso l’accordo, tuttavia, l’asse si è spostato su un’impostazione più restrittiva, in cui il baricentro non è più la redistribuzione dei richiedenti asilo, ma il controllo delle frontiere esterne, la distinzione rigida tra migrazione “legale” e “illegale” e l’aumento del tasso di rimpatrio effettivo. In questo contesto si colloca anche il nuovo approccio concordato da Italia e Germania sulle Ong, indicate come possibile “pull factor” dei flussi irregolari, e l’intesa per l’azzeramento temporaneo dei “dublinanti” destinati alla Repubblica federale, in attesa che il nuovo Patto migrazione–asilo entri a regime.
Gli snodi del 2026
Accanto ai tre regolamenti tecnici, il Consiglio ha trovato un’intesa sul “solidarity pool” per il 2026, uno dei nodi più politici del Patto. Per la seconda metà dell’anno, a partire dal 12 giugno, il meccanismo prevede 21mila ricollocamenti o impegni materiali equivalenti, oppure 420 milioni di euro di contributi finanziari da parte degli Stati non di primo arrivo a favore di quelli sotto pressione migratoria, oggi Italia, Spagna, Grecia e Cipro. Piantedosi chiarisce che per Roma questo non rappresenta la priorità: il governo punta sul “controllo delle frontiere esterne”, con l’obiettivo dichiarato di ridurre i flussi a numeri tali da rendere residuale il ricorso alla solidarietà obbligatoria.
La discussione sul solidarity pool si intreccia con la tempistica di attuazione del Patto: la Commissione si attende che la riduzione dei flussi in ingresso renda più gestibile l’applicazione delle quote e alleggerisca il ricorso agli strumenti finanziari previsti. Tuttavia, la funzionalità del meccanismo dipenderà dalla capacità degli Stati di rendere operative le nuove procedure di frontiera e di rimpatrio, poiché la tenuta dell’intero sistema è legata alla rapidità con cui le domande ritenute infondate verranno trattate o trasferite. Sul versante delle istituzioni Ue, il commissario alle Migrazioni Magnus Brunner parla di una “svolta della nostra politica migratoria e di asilo”, mentre la commissaria al Mediterraneo Dubravka Suica ha ribadito nelle scorse settimane che i migranti irregolari vanno “deportati”, segnalando un linguaggio che rispecchia il clima politico prevalente.
Il Consiglio ha approvato esclusivamente la propria posizione negoziale: ora il dossier passa al trilogo con il Parlamento europeo, dove una maggioranza favorevole a un ulteriore irrigidimento delle norme si è già delineata in sede di commissione, grazie alla convergenza tra gruppi popolari e forze della destra radicale. In parallelo, oltre duecento organizzazioni contestano l’impianto dei provvedimenti, segnalando il rischio che l’etichetta di Paese sicuro venga applicata in modo troppo ampio e che gli accordi con governi extra-Ue privi di solide garanzie in materia di diritti fondamentali aprano spazi problematici. Resta poi l’incognita dell’attuazione concreta degli hub di rimpatrio: il quadro giuridico europeo permette ora di istituirli, ma la fase decisiva sarà quella delle trattative con i Paesi terzi disposti ad accoglierli, sul modello del protocollo Italia-Albania o del tentativo olandese con l’Uganda. È un passaggio che Stoklund definisce “un nuovo difficile processo”, nel quale gli Stati membri dovranno tradurre le norme in accordi operativi, stabilendo condizioni di soggiorno, forme di supervisione e responsabilità per le persone trattenute fuori dal territorio dell’Unione.
