Da quando è tornato Trump, gli europei si sentono meno sicuri: il sondaggio Ecfr (e l’anomalia italiana)

La politica aggressiva del tycoon ha fatto rinascere il sentimento anti-americano all'interno dell'Ue
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Trump Scaletta Aereo Afp
Donald Trump (Afp)

Il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca ha cambiato profondamente la percezione di sicurezza dei cittadini europei. Secondo l’ultimo sondaggio pubblicato dall’European Council on Foreign Relations (Ecfr), la seconda presidenza Trump sta “sconvolgendo l’opinione pubblica europea in materia di difesa e sicurezza, costringendo i cittadini ad accettare l’idea di doversi preparare a un mondo in guerra“.
L’ultima decisione del presidente Usa, che ha attaccato l’Iran per annientare il suo sistema nucleare, è un ulteriore passo verso un conflitto sempre più ampio, che coinvolga anche gli alleati europei.

L’Ue, dal canto suo, chiede che i Paesi coinvolti si siedano al tavolo dei negoziati, ma non si dissocia dall’attacco combinato di Israele e Usa. Anzi, Bruxelles ha più volte sottolineato che “non si deve mai permettere all’Iran di sviluppare un’arma nucleare“. Il cancelliere tedesco Merz ha lodato l’iniziativa israeliana nel Paese arabo sostenendo che lo Stato ebraico sta facendo il “lavoro sporco” per tutto l’Occidente.

Nonostante la minaccia nucleare iraniana sia stata sventrata, l’Europa non è mai stato così a rischio.

Lo studio “Trump’s European revolution” rappresenta una fotografia impietosa di come le dichiarazioni e le decisioni del presidente americano abbiano costretto l’Europa a ripensare radicalmente la propria identità e la propria strategia militare.
L’Ecfr, think tank pan-europeo con sede in sette capitali europee fondato nel 2007 e dedicato alla ricerca sulla politica estera e di sicurezza europea, ha condotto l’indagine attraverso i principali sondaggisti YouGov, Datapraxis e Norstat in 12 Paesi (Danimarca, Estonia, Francia, Germania, Ungheria, Polonia, Portogallo, Romania, Spagna, Svizzera, Regno Unito e Italia). 

Cosa ne pensano gli europei sull’aumento della spesa militare

I dati raccolti dall’Ecfr mostrano una trasformazione profonda dell’opinione pubblica europea. Il 50% degli intervistati si dichiara favorevole all’aumento della spesa per la difesa, contro il 24% contrario. Ancora più significativo, il 59% che ritiene giusti mantenere il supporto militare all’Ucraina anche in caso di ritiro degli Stati Uniti.

L’Italia rappresenta un’eccezione preoccupante: il 57% degli italiani si oppone all’aumento della spesa per la difesa, mentre solo il 17% favorevole, un gap in crescita rispetto a marzo. Questa posizione che stride con il consenso europeo, ma replica quella dell’esecutivo italiano, non entusiasta del ReArmEu.

Per quanto riguarda la reintroduzione del servizio militare obbligatorio, Francia (62%), Germania (53%) e Polonia (51%) guidano il sostegno alla reintroduzione, mentre i più titubanti sono in Ungheria (32%), Regno Unito (37%) e Spagna (37%). Quest’ultima, per mezzo del presidente Sanchez, ha fatto sapere al segretario generale della Nato di non voler portare al 5% del Pil la spesa nazionale per la difesa: “Siamo uno Stato sovrano e come tale ci opponiamo” a questa richiesta, ha scandito il leader socialista nella lettera inviata a Mark Rutte.

La domanda sulla leva obbligatoria non è stata posta in Danimarca, Estonia e Svizzera perché lì il servizio militare è già obbligatorio.

Da sottolineare una frattura generazionale significativa: le fasce d’età 60-69 e over 70 sono le più favorevoli all’idea del servizio militare obbligatorio (rispettivamente il 54% e il 58%). Questa percentuale crolla se confrontata con la fascia demografica più giovane (18-29 anni). In media, solo il 27% di questo gruppo che ha l’età per partecipare a qualsiasi conflitto armato si è espresso a favore, mentre la maggioranza del 57% ha affermato che si opporrebbe a tale misura.

Il paradosso della deterrenza nucleare

Il 54% degli europei sostiene lo sviluppo di un deterrente nucleare europeo indipendente dagli Stati Uniti, ma uno su due (il 48%) ritiene che si possa ancora fare affidamento sulla deterrenza nucleare americana, rivelando una contraddizione che riflette l’incertezza del momento storico. Alcuni intervistati hanno sostenuto entrambe le strade.

Come osservano gli autori dello studio Ivan Krastev e Mark Leonard, l’Europa sta rispondendo alla “rivoluzione” di Trump “facendo un passo indietro” e “guadagnando tempo per prepararsi al balzo imminente”. Invece di accelerare verso l’autonomia, molti Paesi europei sperano ancora che Trump sia solo una parentesi: una strategia che espone l’Ue a rischi enormi, come sottolineato più volte da Mario Draghi.

La metamorfosi dei partiti: dal sovranismo all’internazionalismo trumpiano

Il sondaggio Ecfr rivela un cambiamento interessante: l’estrema destra europea si è trasformata “da sovranista a internazionalista”, diventando “alleata ideologica del presidente degli Stati Uniti”. Partiti come Fidesz, PiS, Fratelli d’Italia, AfD e Vox hanno una visione prevalentemente positiva dell’America trumpiana. Un’internazionalizzazione che, in realtà, tradisce i valori conservatori e nazionalistici che questi gruppi condividono con la politica Maga. Come ha osservato Mark Leonard, “i partiti di estrema destra non sono più visti semplicemente come anti-sistema, ma sono diventati parte di un’internazionale pro-Trump”.

Al contrario, gli elettori dei partiti tradizionali “sembrano stringersi attorno alla bandiera europea”, soprattutto in Germania e Francia.

Cresce il sentimento anti-americano

Il sondaggio Ecfr rivela un fenomeno che merita un’analisi approfondita: l’emergere di un significativo sentimento antiamericano in Europa, con intensità e caratteristiche diverse a seconda dei Paesi. Una trasformazione strutturale nel modo in cui gli europei percepiscono gli Stati Uniti e il loro ruolo nel mondo.

I dati del sondaggio mostrano una distribuzione geografica precisa di questo fenomeno. La Danimarca, minacciata direttamente dalle smanie di Trump sulla Groenlandia, emerge come il Paese più critico verso l’America trumpiana: l’86% degli intervistati ritiene che il sistema politico statunitense sia “a pezzi”. Un dato che assume particolare rilevanza considerando che la Danimarca è storicamente uno dei Paesi europei più atlantisti. La percentuale di danesi che considera la rielezione di Trump un fattore negativo per i cittadini americani è aumentata dal 54% al 76% in soli sei mesi.

Il Portogallo segue questa tendenza con il 70% della popolazione che considera negativa la rielezione di Trump, in crescita rispetto al 60% registrato nel novembre 2020 dopo la vittoria di Biden. 
Nel Regno Unito e in Germania, le maggioranze critiche verso Trump raggiungono rispettivamente il 74% e il 67%. Particolarmente significativo è il caso tedesco, dove il sentiment antiamericano si scontra con decenni di partnership strategica e presenza militare americana sul territorio.

Il caso italiano: un’anomalia europea

L’Italia presenta caratteristiche particolari nel panorama europeo del sentiment antiamericano. Già nel 2022, un’analisi dell’Ecfr aveva evidenziato come il 28% dei cittadini italiani ritenesse che a ostacolare la pace in Ucraina fossero gli Stati Uniti, mentre negli altri Paesi europei questa percentuale si fermava al 9%. Questo dato rivela un antiamericanismo strutturale che precede l’era Trump e che si radica in fattori storici e culturali specifici.

Come osservato dagli analisti, “in Italia, come in Germania, il ricordo delle città bombardate nella seconda guerra mondiale ha alimentato l’avversione per la politica estera statunitense, e si è mescolato alle simpatie per l’URSS nutrite da molti”. Tuttavia, l’Italia presenta anche un’altra peculiarità nel sondaggio Ecfr: è l’unico Paese europeo dove la maggioranza (57%) si oppone all’aumento della spesa per la difesa, con solo il 17% favorevole. 

Questo dato suggerisce che l’antiamericanismo italiano si accompagna a una riluttanza generale verso il riarmo.

La trasformazione della percezione americana

Il sentiment antiamericano rivelato dal sondaggio non si limita a una semplice disapprovazione di Trump, ma riflette una trasformazione più profonda nella percezione del sistema politico e sociale americano. Come evidenziato da un precedente sondaggio Ecfr, la maggior parte dei cittadini dell’Ue ora considera gli Stati Uniti un “partner necessario” (50% in media), piuttosto che un “alleato” (21%).

Questa distinzione terminologica è cruciale: al contrario di un “alleato”, un “partner necessario” è qualcuno con cui si deve collaborare per necessità strategica, non per affinità valoriale o fiducia reciproca. Come ha osservato Mark Leonard, “sebbene molti europei siano impazziti per le prospettive di Trump alla Casa Bianca, la maggior parte del resto del mondo ritiene che la sua presidenza sarà positiva per gli Stati Uniti, il mondo e la pace in Ucraina e in Medio Oriente”. Questo isolamento europeo nel giudizio su Trump contribuisce ad alimentare il sentiment antiamericano.

Essere filoamericani oggi significa soprattutto essere scettici nei confronti dell’Ue, mentre essere filoeuropei significa essere critici nei confronti dell’America di Trump”, ha sintetizzato Ivan Krastev.

La trasformazione in corso va oltre la semplice riorganizzazione delle alleanze, ma rappresenta una ridefinizione dell’identità europea stessa. I cambiamenti più importanti, d’altronde, si hanno nelle fasi cruciali della storia come quella che stiamo vivendo adesso. Trump ha accelerato un processo che molti ritenevano inevitabile ma che nessuno immaginava così rapido e traumatico.

Il tempo delle illusioni è finito. Come ha dichiarato Mark Leonard, “la rivoluzione di Donald Trump è arrivata in Europa, ribaltandone l’identità politica e geopolitica”. Ora resta da vedere se gli europei sapranno trasformare questa crisi in opportunità, costruendo finalmente quella sovranità strategica di cui parlano da decenni ma che non hanno mai avuto il coraggio di realizzare.

Trump contro l’Ue

Trump non ha mai nascosto la sua visione dell’Europa come un continente che deve imparare a difendersi autonomamente. Durante il World Economic Forum di Davos nel gennaio 2025, il tycoon ha dichiarato senza mezzi termini: “Non possiamo essere sempre noi a fare da scudo per l’Europa. È il momento che si assumano le loro responsabilità”. Parole che hanno fatto seguito alla richiesta, tuonata più volte, di aumentare le risorse che i Paesi Ue destinano alla Nato dietro la minaccia di una uscita degli States dall’Alleanza atlantica. Sulla guerra in Ucraina, Trump ha immediatamente fatto capire che, cessato il conflitto, l’Europa dovrà occuparsi autonomamente della sicurezza dei confini proprio e del Paese aggredito.

Per Trump, lontano sia geograficamente che idealmente da Bruxelles, questa spada di Damocle che pende in testa all’Unione europea è una manna dal cielo. Ancora prima di tornare alla Casa Bianca, ha fatto capire che per lui la questione ucraina è un peso, una questione di cui si deve occupare l’Europa. “È un problema loro, non nostro“, ha scandito il tycoon, che ha portato avanti la fase negoziale, senza però raggiungere alcun traguardo, se non quello di allontanare Bruxelles avvicinando Washington al Cremlino.

L’aggressiva strategia dei dazi usata contro gli europei “nati per fregare gli Usa” ha fatto il resto.

Il ritiro militare: meno soldati, più autonomia forzata

Sul fronte militare, Trump ha dato seguito alle minacce con decisioni concrete. Secondo fonti diplomatiche europee, l’amministrazione americana ha comunicato l’intenzione di ridurre la presenza delle forze Usa in Europa di circa il 20%, ovvero 20mila unità. Il Pentagono starebbe valutando il ritiro di fino a 10mila soldati da Polonia e Romania, Paesi che rappresentano il fianco orientale della Nato più esposto alla minaccia russa.

Il tycoon ha mandato un messaggio chiaro agli europei sospendendo la partecipazione americana alla pianificazione delle future esercitazioni militari in Europa. Una decisione che segna “un potenziale punto di svolta nelle relazioni transatlantiche” e apre scenari di ridistribuzione strategica delle forze americane.

La richiesta del 5% e le minacce alla Groenlandia

Trump ha alzato ulteriormente la posta chiedendo agli alleati europei di destinare il 5% del Pil alla difesa, una cifra che ha trovato “ampio sostegno” secondo il segretario generale della Nato Mark Rutte. Tuttavia, il presidente americano ha chiarito che gli Stati Uniti dovrebbero essere esentati da questo obiettivo: “Non penso che dovremmo farlo noi, ma penso assolutamente che i paesi Nato dovrebbero farlo”, ha ribadito in questi ultimi giorni.

I dati del SIPRI mostrano che nel 2024 la spesa militare statunitense rappresentava il 66% dei bilanci della Nato e il 37% della spesa globale. Si attestava a circa il 3,4% del Pil, una cifra significativamente superiore a quella della maggior parte degli alleati della Nato, ma ben al di sotto della proposta del 5%.

Le minacce alla Groenlandia hanno rappresentato il culmine della pressione trumpiana sull’Europa. “Non escludo l’uso della forza sulla Groenlandia”, disse il presidente ancora di tornare alla Casa Bianca. Nei mesi successivi, il tycoon ha ripetuto la minaccia e ha inviato sulla grande isola artica ospiti non graditi, come quella di suo figlio Donald Trump Jr e del vicepresidente americano JD Vance.

Una pressione costante che ha costretto l’Ue a rispondere con un comunicato congiunto di von der Leyen e Costa: “L’Ue proteggerà sempre i nostri cittadini e l’integrità delle nostre democrazie e libertà“. La Groenlandia non è parte dell’Unione europea, ma è territorio autonomo del regno di Danimarca, che è membro Ue, e con l’Europa condivide i valori di autodeterminazione, libertà e pace. Quelli Trump ha rimesso in discussione travalicando i confini nazionali Usa.

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