Trump nuovo presidente Usa, Europa preoccupata per le ripercussioni

Dall'Ucraina all'economia, dal disimpegno verso la sicurezza dell'Ue al rischio autoritario, ecco le sfide che attendono l'Unione
7 giorni fa
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Trump Vince Elezioni
(Fotogramma)

Trump è il nuovo presidente degli Stati Uniti, cosa significa questo per l’Unione europea? Una domanda che circola da mesi, soprattutto alla luce del fatto che la maggioranza delle capitali avrebbe voluto che vincesse Kamala Harris, nonostante ci siano alcune forze, capeggiate dall’ungherese Viktor Orban, che stanno festeggiando.

Una prima cosa da dire, emersa durante la nottata elettorale che Adnkronos ha dedicato alle elezioni Usa con la sua diretta ‘Breakfast in America’, è che il voto dimostra “la volontà degli Stati Uniti di voler cambiare strada“, come ha dichiarato il co-founder Bea – Be a media company Marco Bardazzi.

“L’impressione finale è un bisogno di un cambio di passo che vede in Trump ancora oggi l’uomo contro l’establishment, un segnale contro i dirigenti in generale in tutti i Paesi del mondo. Non è un segnale solo per l’America ma per tutto il mondo”.

Sul cambio di passo d’accordo Giovanni Orsina, professore di scienza politica della Luiss, che ha sottolineato quanto il secondo mandato di Trump sia molto diverso dal primo: “Mentre la prima vittoria di Trump è stata ‘corsara’, questa seconda vittoria, che è netta anche nel voto popolare, sembra profilare un cambiamento di paradigma strutturale, cioè consolida un cambiamento della politica americana, che dovrà cambiare qualcosa anche nei Democratici. Se Trump prima era un ‘underdog’, ora è quasi mainstream”.

Ma quali sono le sfide che l’Unione si troverà ad affrontare con Trump presidente?

L’economia

“L’Europa stava attendendo con più ansia del solito l’esito delle elezioni americane”, ha sottolineato Giada Giani, senior economist di Citi per l’Europa elencando i diversi canali su cui l’Europa potrebbe essere impattata dalla vittoria di Trump: “In prima battuta, quello commerciale: abbiamo già visto le ripercussioni sul settore manifatturiero, in particolare quello tedesco. Riteniamo che le proposte di dazi commerciali al 10% contro tutti i partner commerciali e soprattutto le implicazioni maggiori, con dazi commerciali fino al 60% sui prodotti cinesi potrebbero avere ripercussioni negative sulle esportazioni e sul manufatturiero europeo e soprattutto tedesco”.

“Altro settore importante – ha spiegato Giani – è quello dell’energia: l’Europa ha sofferto un grosso shock energetico negli ultimi tre anni. In grande parte questo è rientrato ma non totalmente. Evoluzioni sul fronte del conflitto in Ucraina potrebbero avere delle ripercussioni sul prezzo dell’energia, anche positive, con il prezzo del gas che potrebbe scendere ulteriormente, portando sollievo a settori come quello tedesco che soffrono ancora dell’aumento del prezzo delle commodities energetiche più alte del pre-pandemia”.

“Infine – ha concluso – il lato fiscale: nessuno dei due candidati proponeva il rientro del deficit pubblico americano ma sicuramente le proposte repubblicane tendono ad essere più costose da punto di vista della politica fiscale: i rendimenti sui bond governativi hanno prezzato già prima delle elezioni uno scenario di aumento del deficit e dei tassi di interesse. Questo potrebbe avere delle ripercussioni anche sui rendimenti europei”.

Rimanendo nell’ambito economico, il pensiero dell’Unione va soprattutto ai dazi sui prodotti europei spesso minacciati dal tycoon, che già li aveva decisi durante il suo primo mandato: “I dazi doganali saranno probabilmente uno dei primi ordini esecutivi dello studio ovale e potrebbe scatenare delle guerre commerciali, di cui l’Europa risentirà”, ha specificato Bardazzi.

L’Ucraina

Altro tema di grande interesse per il blocco europeo è ovviamente l’Ucraina: “Adesso comincerà una corsa all’interpretazione su cosa voglia dire quello che Trump ha detto, ovvero che farà finire la guerra” in Ucraina “in 24 ore. L’interpretazione più ricorrente è che voglia esercitare una pressione su Zelensky, su cui ha una leva fondamentale che è la fornitura di armi, oppure su Putin, che sono le minacce, questo perché si siedano a un tavolo. In Europa ci sarà un’accelerazione molto forte su come fare all’indomani per strutturarsi per contenere Putin”, ha detto Beniamino Irdi, senior fellow, Atlantic council. “Il tratto che mi preoccupa di più di Trump è il distacco dall’Europa”, ha aggiunto.

Si tratta di una possibilità molto concreta, considerando che il baricentro strategico degli Usa già da tempo si è spostato verso il Pacifico, e questo prima e a prescindere da Trump, come è stato sottolineato più volte durante la nottata elettorale.

La politica estera

Tra i motivi, come ha evidenziato Irdi, il fatto che i rapporti transatlantici si basano su valori che Biden incarnava in quanto ultimo presidente testimone della Seconda guerra mondiale e della guerra fredda (Trump fa storia a sé), ma gli altri, come la stessa Harris, sono cresciuti con altri contesti e valori e dunque per loro l’alleanza tra le due sponde dell’Atlantico non è più così rilevante.

D’altronde, ha spiegato il professore Gabriele Natalizia, docente di Relazioni internazionali all’Università La Sapienza di Roma, la politica estera di Trump si può riassumere in tre posizioni: “Cina, Cina, Cina. Per la Harris non era troppo differente, forse sarebbe entrata anche la Russia. Ma in tutti i documenti strategici degli ultimi 15 anni si legge questo, da Obama a Biden: ‘La Repubblica Popolare Cinese è il nostro rivale strategico, le altre sono minacce secondarie, compresa la Russia‘. Nell’indo-pacifico si inquadrava il luogo dove si sarebbe giocato e si giocherà il futuro dell’ordine internazionale”.

“Tanto Harris quanto Trump, per quanto poco si è parlato di politica estera nella campagna elettorale, avevano impostato il tema della politica estera sulla Cina. Quindi attenzione all’area dove gli Usa si giocano il futuro, ma questo vale per Trump e con la Harris sarebbe stato lo stesso”.

L’autonomia strategica

In questo discorso rientra anche quello dell’autonomia strategica, su cui soprattutto la Francia ha spinto dal 2016 intesa come la costruzione di una propria capacità militare, di sicurezza, di politica esterna, in vista di uno sganciamento dagli Usa dettato da Trump. Una spinta che si è richiusa con Biden, ultimo presidente atlantista, e ora Macron è indebolito, non c’è Angela Merkel, piuttosto ci sono leader capeggiati da Orban che hanno una certa forza e che guardano verso Putin, le democrature, altre forme di governo.

Nei quattro anni di Biden, è emerso durante ‘Breakfast in America’, l’Ue non ha fatto quello che avrebbe dovuto fare: rendersi indipendente dalla tutela americana e incentivare la competitività, e tutt’oggi permangono divisioni tra i Ventisette che rendono molto difficile fare qualche passo concreto su questi temi.

La colpa di questa situazione è solo dell’Europa, che, ha evidenziato Stefania Craxi, senatrice di Forza Italia e presidente della commissione Esteri e Difesa di Palazzo Madama, “è un’Europa che non c’è”, cosa di cui “non si deve mandare la responsabilità a Trump, o alla Cina”, ma all’Europa stessa.

“L’autonomia strategica, che io continuo a vedere nella Nato, ci arriviamo con grande ritardo, l’autonomia serve per prenderci carico di quel quadrante che è meno attenzionato dagli Stati Uniti d’America, come l’Africa. Noi siamo arrivati impreparati perché ci siamo fatti imbambolare dall’ideologia globalista. E il mercato ha allargato le diseguaglianze, sono scoppiati i conflitti perché manca la politica, e l’unica cosa che non ha avuto confini sono i soldi, tanto che il potere della finanza ha sopravanzato quello della politica. La responsabilità dell’Europa che non ha una politica estera comune e di difesa“.

Un ragionamento proseguito dal professore Gabriele Natalizia, docente di Relazioni internazionali all’Università La Sapienza di Roma: “L’Europa ha avuto un tempo sufficiente, dalla fine della guerra fredda agli anni ’20, trent’anni per creare le forze armate europee. L’Europa ha scelto di fare altro. Non crei delle forze armate di un continente composto da 27 Stati nel giro di 4 anni, non lo creeremo nei prossimi anni, di fronte all’invasione russa dell’Ucraina. Bisognava pensarci prima”.

“Il concetto di autonomia strategica, declinato nel 2016 soprattutto dai francesi come autonomia dagli Stati Uniti, e che implicava una forza armata europea ormai sembra essere tramontato”, ha confermato Natalizia, secondo cui “la posizione italiana è stata quella vincente: autonomia strategica significa lavorare insieme con gli alleati quando è possibile ma fare da soli quando è necessario. Sia Harris sia Trump avrebbero condiviso un imperativo strategico: il disimpegno dalle aree non ritenute vitali per gli interessi americani nel momento in cui gli interessi vitali americani sono in gioco nell’indo-pacifico”.

“Lavorare oggi all’autonomia strategica significa far sviluppare una industria della difesa europea, significa coordinare gli acquisti delle varie forze armate per cercare di renderle quanto più interoperabili possibile”.

Sul tema è tornato anche Irdi, sottolineando che il concetto di autonomia strategica solleva temi riguardo al “rapporto psicopolitico delle opinioni pubbliche europee con l’utilizzo della forza militare. C’è un denial del fatto che viviamo in un mondo in cui la forza militare non si può trascurare per sempre”.

“La guerra in Ucraina ha dato un impulso all’autonomia strategica ma se dovesse finire con una vittoria di Putin questo rischia di generare la consapevolezza che l’Europa non ha funzionato, non è diventata una vera entità politica e che quindi ci possa essere un trinceramento nella dimensione della sicurezza nazionale, il che sarebbe molto vicino alla fine del progetto europeo”, ha concluso.

Per Francesco Talò, consigliere del ministero della Difesa “sarebbe velleitario considerarci una parte terza fra Stati Uniti e Cina. Dobbiamo lavorare insieme (con gli Usa, ndr), siamo un’unica comunità e il rischio vero è la Cina. Ciò significa anche una più forte industria europea della difesa e spiegare agli americani che è anche nel loro interesse. Sarà una bella partita con Trump, ma dobbiamo lavorare insieme. Credo che Ursula Von der Leyen possa essere una guida e Rutte può essere, anche per il suo carattere, un ottimo ponte fra Stati Uniti e l’Europa”.

Rischio autoritario?

Un altro punto emerso durante la nottata elettorale Adnkronos è il timore che con Trump gli Usa si avviino verso una ‘democratura’, cioè un regime politico formalmente democratico, ma sostanzialmente autoritario.

Che genere di presidenza sarà quella di Trump?, si è chiesta la regista, documentarista e giornalista Antonella Rampino, considerando che Elon Musk e Peter Thiel (fondatore di Paypal, ndr) “teorizzano come la democrazia non sia più in grado di governare e vorrebbero un governo di super tycoon tecnocrati. Temo che potrebbe prefigurarsi un presidente attorniato da yes man, come nella sua prima presidenza, e che ceda molta della sua strategia a figure come Thiel e Musk. Ci potrebbe portare uno scenario distopico“.

Un tema sentito nelle ultime settimane, quando il Dark MAGA e il Project 25 hanno mostrato che esistono tendenze più o meno sotterranee che spingono verso direzioni anche violente (il primo) e autoritarie (il secondo).

Spazio all’ottimismo… o forse no

Ma c’è anche chi rimane ottimista. In particolare, Stefania Craxi, senatrice di Forza Italia e presidente della commissione Esteri e Difesa di palazzo Madama, ha commentato così la vittoria del tycoon: “Io non sono d’accordo su tutte le preoccupazioni sulla democrazia statunitense, anche perché il presidente non è un uomo solo al comando. Io non penso che la politica estera degli Usa possa fare delle giravolte, è vero che Trump è alquanto imprevedibile, e ha detto delle cose che ci hanno preoccupato, come per esempio che chiuderà velocemente il conflitto in Ucraina. Ma può permettersi di far vincere Putin a tavolino e rischiare che apra altre faglie di crisi in Europa? Può permettersi l’America che Xi Jimping possa pensare di invadere Taiwan senza pagarne le conseguenze? Rispetto alla scorsa presidenza Trump il mondo è cambiato, può l’America non continuare a coltivare il rapporto con l’Europa? Sono domande che mi faccio, e rimango ottimista, perché un conto sono le dichiarazioni elettorali, un conto è la realtà“.

Un ottimismo a cui ha fatto da contraltare l’opinione di Lia Quartapelle, deputata del Partito democratico: “Quello che è chiaro è che l’impatto sarà politico su tutta l’Europa. Saranno quattro anni molto duri, io credo, per il nostro continente, per il nostro Paese. È vero che bisognerà trovare il modo di lavorare con una presidenza Trump così come abbiamo lavorato con una presidenza Biden, perché gli Stati Uniti sono il nostro principale alleato, ma è vero che sarà molto difficile. È vero che sarà anche l’ora di una prova di maturità da parte dell’Unione europea, che in questo momento non può permettersi divisioni, deve prendere delle decisioni, deve diventare adulta, deve contribuire alla propria sicurezza e deve pensare al proprio posto nel mondo, senza sperare che ci sia qualcuno che farà i compiti per noi”.

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