Trump minaccia (di nuovo) l’Europa: dazi e sanzioni contro chi applica il Digital Services Act

Dopo la tregua sui dazi, torna la tensione. L’America considera le regole Ue un attacco alle proprie Big Tech, l’Europa difende la sovranità digitale
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Donald Trump con sguardo minaccioso
Donald Trump (Ipa/Fotogramma)

Come era facilmente prevedibile, il fatto che nell’accordo sui dazi tra Ue e Usa, formalizzato da una Dichiarazione congiunta rilasciata solo la scorsa settimana, non fosse menzionata la regolamentazione digitale europea non significava che il presidente statunitense Donald Trump avesse lasciato perdere la questione. Il tycoon c’è tornato sopra stamattina presto (ora europea), annunciando a chiare e maiuscole lettere sul suo social Truth le proprie intenzioni.

La minaccia di Trump: dazi e restrizioni all’export di tecnologia

In sostanza, Trump minaccia “tutti i Paesi con tasse, legislazione, norme o regolamenti digitali”, di imporre nuove “sostanziali tariffe aggiuntive sulle (loro, ndr) esportazioni” e di applicare “restrizioni all’esportazione su tecnologia e chip altamente protetti verso gli Usa”, se non rimuoveranno “queste azioni discriminatorie”.

Il motivo è uno dei ritornelli preferiti di Trump, che accusa le normative digitali di essere un attacco alle “straordinarie aziende tecnologiche americane”, le quali verrebbero considerante un “salvadanaio” e lo “zerbino” del mondo. “Le tasse digitali, la legislazione sui servizi digitali e le normative sui mercati digitali sono tutte progettate per danneggiare o discriminare la tecnologia americana“, ha ribadito l’inquilino della Casa Bianca su Truth. Per concludere: “Inoltre, in modo scandaloso, danno un lasciapassare completo alle più grandi aziende tecnologiche cinesi. Questo deve finire, e finire ORA!”.

L’agenzia Reuters ieri ha pubblicato un’esclusiva secondo cui la Casa Bianca starebbe considerando sanzioni sotto forma di restrizioni sui visti contro i funzionari dell’Unione o dei singoli Stati responsabili dell’attuazione del Digital Services Act (Dsa).

L’Ue ribatte: “Nostro diritto sovrano regolamentare le attività economiche sul nostro territorio”

La risposta della Commissione è arrivata oggi durante il briefing pomeridiano, attraverso le parole della portavoce Paula Pinho: “È diritto sovrano dell’Ue e dei suoi Stati membri regolamentare le attività economiche sul nostro territorio, che siano coerenti con i nostri valori democratici”. Mentre il portavoce della Commissione Thomas Regnier ha sottolineato la neutralità della normativa europea: “Il Dsa e il Dma non tengono conto del colore di un’azienda, della sua giurisdizione o del suo proprietario. Si applicano entrambi a tutte le piattaforme e aziende che operano nell’Ue, indipendentemente dal loro luogo di stabilimento”. Regnier ha anche specificato che “le ultime tre decisioni di applicazione che abbiamo preso riguardavano AliExpress, Temu e TikTok”, ovvero piattaforme cinesi.

Cosa sono il Digital Services Act e il Digital Markets Act

Il Digital Services Act è una legge dell’Unione europea entrata in vigore nel novembre 2022 e pienamente applicabile dal 17 febbraio 2024, che punta a regolare le piattaforme online e i servizi digitali (come social media, marketplace, motori di ricerca) per rendere Internet più sicuro, proteggere i diritti degli utenti e creare regole comuni per tutti gli operatori digitali nel blocco.

La normativa prevede alcuni obblighi base per tutti, come quelli sulla rapida rimozione dei contenuti illegali (come odio, terrorismo, pornografia infantile) o sulla trasparenza degli algoritmi, e altri diversi in base alla dimensione della piattaforma. Le VLOPs/VLOSE (Very Large Online Platforms/Search Engines, ovvero quelle con oltre 45 milioni di utenti nell’Ue, come Google, Meta, Amazon, TikTok, X) devono ad esempio provvedere anche all’analisi e mitigazione dei rischi sistemici (disinformazione, interferenze elettorali, rischi per la salute mentale dei minori).

Complementare al Dsa è il Digital Markets Act (Dma), entrato in vigore nel maggio 2023 con l’obiettivo di rendere il mercato digitale più equo e competitivo e di evitare che pochi grandi attori controllino l’innovazione e i dati. In sintesi, il Dsa protegge gli utenti e regola i contenuti online, il Dma disciplina la concorrenza e il potere economico delle piattaforme.

Dsa, due visioni diverse

Per Bruxelles il Dsa serve a disciplinare il potere economico dei grandi ‘gatekeeper’ digitali, bilanciando libertà d’espressione, protezione dei consumatori e lotta agli abusi. Per Washington invece l’Unione starebbe restringendo “indebitamente” la libertà di espressione degli americani, arrivando a una vera e propria censura. Inoltre, la normativa imporrebbe costi in più che gravano sulle aziende tech.

Una posizione ripetuta più volte in questi mesi, tanto che questi ultimi sviluppi non arrivano dal nulla. Già lo scorso febbraio, ad esempio, Trump aveva ordinato di riavviare le indagini per imporre dazi ai Paesi che prevedono tasse sui servizi digitali.

E in Europa tutti ricordano ancora il discorso del vice presidente JD Vance durante la Conferenza di Monaco sulla sicurezza. Un palco usato dal vice di Trump per attaccare l’Europa su immigrazione e libertà di parola: “La minaccia è interna, non è la Russia”, aveva detto Vance accusando l’Ue di soffocare la libertà di espressione, e di “bullizzare le Big Tech“.

Ancora, lo scorso maggio il segretario di Stato Marco Rubio ha minacciato via social: “Oggi annuncio una nuova politica di restrizioni sui visti che si applicherà ai funzionari stranieri e alle persone complici della censura degli americani. La libertà di parola è essenziale per lo stile di vita americano, un diritto di nascita sul quale i governi stranieri non hanno alcuna autorità”. Chiarendo in un secondo post su X: “Sia in America Latina, in Europa o altrove, i giorni del trattamento passivo per coloro che lavorano per minare i diritti degli americani sono finiti”,

A inizio agosto, infine, Rubio ha anche lanciato una campagna di lobbying contro il Dsa, col fine di abrogare o modificare la normativa in modo favorevole alle Big Tech Usa.

Gli Usa possono sanzionare funzionari europei?

Ogni Stato è sovrano nel concedere, limitare o negare visti di ingresso sul proprio territorio. Non esiste nel diritto internazionale un “diritto a ottenere un visto” per cittadini di Paesi terzi, di conseguenza è legale imporre delle restrizioni (discorso a parte per i diplomatici, per i quali è prevista una normativa ad hoc).

Di fatto, la restrizione o il divieto di ingresso (travel ban) è una pratica ampiamente utilizzata, di solito contro funzionari stranieri in risposta a gravi violazioni della pace o del diritto internazionale, come atti di terrorismo, violazioni dei diritti umani, aggressioni a Stati sovrani o proliferazione nucleare.

La stessa Unione europea prevede l’uso delle sanzioni, con l’obiettivo dichiarato di “promuovere la pace, sostenere la democrazia e i diritti umani e difendere il diritto internazionale”. La maggior parte dei regimi sanzionatori del blocco è adottata considerando situazioni specifiche, come in Russia, Bielorussia, Iran, Corea del Nord, Siria, Repubblica democratica del Congo e Venezuela.

Anche gli Stati Uniti utilizzano regolarmente questo strumento, ad esempio contro funzionari russi, cinesi, iraniani, venezuelani, in caso di violazioni dei diritti umani, o contro individui responsabili di azioni che minano la sicurezza nazionale – un concetto che può diventare molto elastico.

E se gli Usa di solito usano le sanzioni verso regimi autoritari o avversari strategici, e non verso gli alleati, ci sono comunque dei precedenti anomali: nel 2014 venne vietato l’ingresso nel Paese a diversi cittadini ungheresi, accusati di essere coinvolti in episodi di corruzione. Nel 2020, con Trump presidente, toccò alla Turchia, alleato Nato, per aver acquistato il sistema missilistico S-400 dalla Russia.

Quindi, gli Usa giuridicamente possono applicare restrizioni contro funzionari europei, ma dal punto di vista politico sarebbe una mossa politica forte, nel solco dei nuovi rapporti tra le due sponde dell’Atlantico, stravolti da Trump.