Tanto rumore per nulla? Dopo mesi di tensioni e sconvolgimenti, ‘giorni della liberazione’, annunci e ‘dis-annunci’, e infine dazi alla spicciolata imposti dal presidente Usa Donald Trump urbi et orbi, gli effetti pratici sembrano molto meno rilevanti di quelli, simbolici e non, inflitti al sistema di regole globali e commerciali.
Secondo un’analisi dell’Institute for European Policymaking@Bocconi (IEP@BU), dal titolo ‘First impact of Trump’s trade policy on the Eu’ e firmato da Daniel Gros e Niccolò Rotondi, l’impatto iniziale della politica commerciale trumpiana sull’Ue e sui flussi commerciali è stato, finora, ridotto. Gli autori si sono concentrati in particolare sui dazi annunciate nell’aprile 2025, durante un incontro ormai cult nel giardino delle rose della Casa Bianca, incontro battezzato dal presidente Usa ‘Liberation Day‘.
Gli annunci di Trump sono polvere negli occhi
Un ulteriore elemento di confusione e di sensazionalismo – oltre alla complessità e al tecnicismo propri delle norme commerciali – sta proprio nei roboanti e muscolari annunci trumpiani, che alla fine dei conti, almeno per ora, si riducono in polvere negli occhi, anche perché nel pratico non si capisce bene cosa e quanto venga effettivamente applicato alle merci. Ma sono anche un gioco di specchi: le tariffe medie stimate in base agli annunci politici di Trump si concretizzano poi in tassi effettivi ben diversi.
Per far parlare i numeri, gli autori ricordando come la prima stima (post ‘tregua’) dello Yale Budget Lab fosse di un tasso medio del 28%, quella di luglio di circa il 17% e quella del 7 agosto del 18,6%. Ma in concreto, “il tasso medio riscosso nei mesi di maggio, giugno e luglio è rimasto (in tutti i Paesi) intorno al 9-10%”.
Ora: partendo dal presupposto che “i dazi statunitensi violano chiaramente tutte le regole commerciali globali” e quelle dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto), oltre che potenzialmente la Costituzione americana (ci sono infatti procedimenti pendenti davanti ai giudici Usa), finora il sistema commerciale internazionale sembra resistere abbastanza bene all’approccio trumpiano.
L’import Usa aumenta nonostante i dazi, l’Ue resiste e la Cina cala
I flussi commerciali sono stati impattati in modo limitato: il commercio globale continua ad espandersi e le importazioni statunitensi sono leggermente aumentate – rispetto allo stesso periodo del 2024, nonostante i dazi, stabilizzandosi dopo la corsa di marzo, quando gli operatori hanno cercato di portare negli Usa più merci possibile per sottrarle alle imminenti tariffe. Mentre la quota di mercato dell’Ue è rimasta costante, con le esportazioni del blocco verso gli Stati Uniti in aumento di circa 40 miliardi di euro durante il primo semestre di quest’anno.
I motivi, spiegano gli autori, sono che l’aliquota media effettiva dei dazi statunitensi è stata moderata, di circa il 9-10%, e che, al di là dello scompiglio creato, quasi nessun Paese intende seguire l’esempio del capo della Casa Bianca, tutti consapevoli del fatto “che l’imposizione di una tariffa è per lo più un atto di autolesionismo”.
L’accordo con gli Usa dà all’Ue un vantaggio rispetto ai competitor
Questa è anche la ragione per cui, spiega l’analisi, l’accordo quadro tra Ue e Usa, da molti avversato (e strumentalizzato) come una resa con tanto di bandiera bianca da parte europea, non è poi così svantaggioso. Asimmetrico lo è, ma, andando a guardare bene, secondo Gros e Rotondi “l’Ue ha riconosciuto la volontà degli Stati Uniti di limitare il proprio commercio estero senza, saggiamente, fare lo stesso”.
Infatti, se attuata, l’intesa confermerebbe “la posizione relativamente vantaggiosa dell’Ue in termini di accesso al mercato statunitense“, rispetto a quella di Paesi come la Cina – che affronta dazi medi intorno al 40%, contro meno del 10 % per il resto del mondo – e altri competitor come la Corea o il Giappone.
Canada e Messico principali beneficiari della politica commerciale di Trump
Quanto al Canada e al Messico, questi hanno al momento condizioni migliori, ma, rileva lo studio, rappresentano mercati troppo piccoli per essere veri concorrenti dell’Unione. Inoltre, va ricordato che beneficiano di esenzioni dalle tariffe su diverse tipologie di merci grazie a un accordo di libero scambio pre-esistente.
E proprio il fatto che molti beni sono esentati dai dazi può cambiare le carte in tavola. Rimanendo a Canada e il Messico infatti, anche se i due Paesi si sono visti affibbiare aliquote relativamente elevate (oltre il 20% per entrambi) sui prodotti soggetti a dazio, in definitiva affrontano tassi medi effettivi molto bassi (rispettivamente 2-4%) proprio perché la maggior parte delle loro esportazioni verso gli Usa è esente da tariffe.
Questo significa che Messico e Canada potrebbero essere i principali beneficiari della politica commerciale di Trump, in quanto potrebbero conquistare ulteriori quote nel mercato delle importazioni statunitensi (finora non in calo, precisano gli autori).
Per l’Ue si può osservare un fenomeno simile, ma molto più attenuato, spiega l’analisi: l’aliquota media sui prodotti soggetti a dazio è del 13%, ma l’aliquota effettiva complessiva è dell’8% perché molte merci europee esportate verso gli Stati Uniti non sono soggette a dazio (ad esempio i prodotti farmaceutici, anche se Trump ha di nuovo minacciato tariffe fino al 250% per questo settore).
L’Unione ha un grande vantaggio rispetto alla Cina
Trump infatti, in barba ai principi della Nazione Più Favorita (Mfn) del Wto, ha stabilito grandi differenze nei tassi tariffari bilaterali. Il risultato è che oltre l’80% delle importazioni statunitensi dalla Cina sono soggette a dazi, con tassi per lo più intorno al 40%. Per il blocco europeo, circa il 60% delle esportazioni verso gli Stati Uniti sono soggette a dazi, mentre per Canada e Messico questa percentuale è inferiore al 20%.
Questo significa però che l’Unione ha “un grande vantaggio rispetto alla Cina”, avendo pattuito una tariffa inferiore di circa 30 punti percentuali. E sembra anche avere un accesso più facile al mercato statunitense rispetto a rivali asiatici come Giappone e Corea del Sud, probabilmente, ipotizzano gli autori, anche per la diversa composizione dei beni scambiati.
Le esportazioni dell’Ue infatti sono fortemente orientate verso i beni intermedi, che reagiscono meno agli aumenti di prezzo rispetto ai beni di consumo, perché sono impiegati nei processi produttivi e dunque sono meno facili da rimpiazzare.
E siccome la politica di Trump attualmente è mantenere la tradizionale (a livello globale) esenzione o quasi per le materie prime e colpire con un livello tariffario simile del 10% sia i beni di consumo sia di quelli intermedi, ecco che chi esporta soprattutto questi ultimi si ritrova ‘favorito’.
In effetti, come già sottolineato, l’Ue sta mantenendo la propria quota di mercato, più o meno costante al 14%, guadagnando rispetto alla Cina la cui quota nelle importazioni statunitensi è crollata da circa il 14% al 7%, e dal 18% al 9% per i beni di consumo. In quest’ultimo ambito il Dragone è passato dall’essere il principale fornitore degli Usa al quarto posto, dietro Messico, Ue e Vietnam.
Can che abbaia non morde
Insomma, notano gli autori, “nonostante la forte reazione iniziale dei mercati azionari, l’attenzione dei media e il simbolismo politico, l’impatto effettivo di queste tariffe (di Trump, ndr) sul terreno è stato molto limitato”. E dunque, almeno per ora, “l’abbaiare è stato peggiore del morso”.