Trump rilancia sui dazi: farmaci al 100%, camion al 25% e mobili al 50%

Tariffe record dal 1° ottobre
14 ore fa
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Trump Microfono Afp
Donald Trump (Afp)

La data del 1° ottobre segna l’avvio di un nuovo capitolo nella politica commerciale statunitense. Donald Trump ha annunciato dazi del 100% su tutti i farmaci di marca e coperti da brevetto importati dall’estero, salvo eccezioni per quelle aziende che abbiano già avviato la costruzione di stabilimenti negli Stati Uniti. Una misura che si inserisce in una più ampia ondata di dazi: 25% sui camion pesanti, 50% su cucine e bagni, 30% sui mobili imbottiti. La giustificazione ufficiale è sempre la stessa: “proteggere i produttori americani dall’inondazione di prodotti stranieri”.

Le conseguenze economiche rischiano di essere più pesanti delle dichiarazioni politiche. Gli Stati Uniti sono il mercato farmaceutico più redditizio al mondo e, allo stesso tempo, dipendono in larga misura da importazioni: quasi il 60% dei farmaci proviene dall’Unione Europea, con l’Irlanda che da sola pesa per il 24% del totale. Colpire il cuore di questa catena significa scatenare un terremoto economico e diplomatico. Non sorprende che le borse abbiano reagito immediatamente, con cali a doppia cifra per alcuni titoli farmaceutici in Asia e pressioni crescenti anche sugli indici europei. Il messaggio politico è chiaro: chi vuole accedere al mercato americano deve produrre in America. Ma la traduzione industriale è tutt’altro che immediata.

L’Europa e il tetto al 15% come scudo (imperfetto)

Bruxelles ha risposto con una dichiarazione netta: i farmaci europei non saranno soggetti a dazi superiori al 15%, come stabilito dall’intesa raggiunta con Washington lo scorso agosto. “Questo chiaro massimale tariffario rappresenta una polizza assicurativa per gli operatori economici europei”, ha spiegato Olof Gill, portavoce della Commissione. L’Ue è l’unico partner commerciale ad aver ottenuto un limite così definito, che si estende anche ad altri settori sensibili come semiconduttori e legname. Ma la rassicurazione non basta a spegnere le preoccupazioni. Prima di tutto perché Trump non ha chiarito se i nuovi dazi si sommeranno a quelli già in vigore. In secondo luogo, perché la clausola del 15% potrebbe comunque alterare i margini di profitto delle aziende, costringendole a ripensare strategie e investimenti.

Il caso dell’Irlanda è emblematico. Dublino rappresenta il primo esportatore di farmaci verso gli Usa e vede nel settore una colonna portante della propria economia. “L’intesa resta valida”, ha ribadito il ministro Simon Harris, ma il timore è che le pressioni americane spingano i grandi gruppi a dirottare parte delle nuove produzioni direttamente oltreoceano. Il Regno Unito, che ha perso il paracadute europeo, è ancora più esposto: con 6 miliardi di dollari di esportazioni farmaceutiche verso gli Stati Uniti, Downing Street si trova costretta ad aprire un negoziato in salita con Washington. Berlino e Berna, fornitori storici di prodotti ad alto valore aggiunto, non sono da meno: la Germania pesa per l’8% delle forniture, la Svizzera per il 9%. Il rischio, insomma, non riguarda solo le aziende, ma anche l’equilibrio interno europeo, dove gli Stati membri potrebbero trovarsi in competizione diretta per assicurarsi corsie preferenziali con gli Stati Uniti.

Multinazionali tra annunci miliardari e mercati in fibrillazione

Le big pharma non sono rimaste a guardare. Eli Lilly, uno dei maggiori gruppi statunitensi, ha annunciato un investimento da 6,5 miliardi di dollari per un nuovo stabilimento a Houston, che si aggiunge a una fabbrica da 5 miliardi prevista in Virginia. Anche Pfizer e altri colossi americani hanno in programma ampliamenti produttivi sul territorio nazionale. Per queste aziende, già radicate negli Stati Uniti, i dazi non rappresentano un rischio diretto come per i concorrenti europei o asiatici. Tuttavia, investire serve a rafforzare la loro posizione (permette di garantirsi un “ombrello” politico in un contesto in cui la Casa Bianca lega gli incentivi all’apertura di nuovi cantieri, di consolidare l’accesso al più grande mercato farmaceutico del mondo e di non lasciare terreno ai rivali stranieri costretti a rilocalizzare parte della produzione, ndr).

La misura colpisce invece soprattutto i produttori europei e asiatici – da Novartis e Roche in Svizzera a Bayer in Germania, da AstraZeneca e GSK nel Regno Unito fino alla giapponese Takeda – che esportano negli Usa gran parte dei loro farmaci brevettati. Per queste aziende i dazi al 100% rappresentano un rischio immediato di erosione dei margini e una spinta a rivedere le catene di fornitura. Nel breve periodo, dunque, le tariffe rischiano di incidere su una quota significativa delle forniture oggi garantite dall’estero, con effetti diretti sia sui bilanci dei gruppi stranieri sia sulla disponibilità dei farmaci negli Stati Uniti.

L’associazione di categoria PhRMA ha ricordato che le imprese del settore hanno già annunciato “centinaia di miliardi di dollari in nuovi investimenti negli Stati Uniti”, avvertendo che l’incertezza legata ai dazi potrebbe rallentare o mettere in discussione parte di questi progetti. Una misura concepita per incentivare la produzione domestica rischia così, almeno nel breve periodo, di introdurre instabilità e di incidere sulla disponibilità dei farmaci per i pazienti americani.

Trasporti e arredo nel mirino delle nuove tariffe

Se i farmaci rappresentano il fronte più sensibile, non meno rilevanti sono le altre misure. Dal 1° ottobre scatteranno anche i dazi del 25% sui camion pesanti e del 50% su cucine e bagni, oltre al 30% sui mobili imbottiti. Trump ha parlato di settori “inondati da importazioni ingiuste”, rivendicando la necessità di proteggere aziende come Peterbilt, Mack Trucks e l’industria del mobile negli stati chiave del Midwest.

Nel caso dei veicoli industriali, i dati sono netti: nel 2024 gli Stati Uniti hanno importato 128 miliardi di dollari di parti per camion pesanti, con il 28% proveniente dal Messico e una quota rilevante da Canada, Germania e Giappone. La Camera di Commercio americana aveva già avvertito che sostituire queste forniture con produzione interna è “impraticabile” e che i costi inevitabilmente ricadranno sui consumatori, innescando aumenti dei prezzi di trasporto e logistica.

Sul fronte dell’arredo, le importazioni hanno raggiunto 25,5 miliardi di dollari, con il 60% proveniente da Cina e Vietnam. L’amministrazione Trump ha presentato la misura come un passo per “riportare il business del mobile” in North Carolina e Michigan, dove l’occupazione del settore si è dimezzata dal 2000 a oggi. La Federal Reserve ha però avvertito che l’imposizione di tariffe contribuisce ad alimentare l’inflazione, un paradosso per un presidente che ha promesso di ridurla. Intanto, il Tesoro stima che i nuovi dazi porteranno nelle casse federali oltre 300 miliardi di dollari entro la fine dell’anno, consolidando il ruolo delle tariffe non solo come strumento commerciale ma anche fiscale.