L’Europa cerca peso nella tregua di Gaza

Il piano di pace di Trump riapre gli spazi diplomatici. Von der Leyen, Meloni e Tajani rilanciano l’impegno europeo tra aiuti, sicurezza e governance
5 ore fa
3 minuti di lettura
Israel Palestinian Conflict
Fumo si alza dalla Striscia di Gaza durante un attacco israeliano visto dal confine con Israele, 17 settembre 2025 (Afp)

L’annuncio di Donald Trump — Israele e Hamas pronti a firmare la prima fase del piano di pace per Gaza — ha riacceso l’attenzione europea su un conflitto che da due anni segna la sicurezza del Mediterraneo. La firma ufficiale dell’intesa, attesa al Cairo intorno alle 11 ora italiana, dovrebbe sancire l’avvio del cessate il fuoco e dello scambio di prigionieri previsto dal piano in 21 punti elaborato dalla Casa Bianca.

Ma in Europa, da Bruxelles a Roma, è suonata come qualcosa di più di un gesto simbolico: una possibile svolta in un conflitto che da mesi alimenta instabilità ai margini del continente.
La tregua, negoziata in Egitto con il sostegno di Qatar e Turchia, prevede la liberazione dei 20 ostaggi israeliani ancora vivi e la restituzione dei corpi di 28 prigionieri, in cambio della scarcerazione di circa 2.000 detenuti palestinesi, tra cui 250 ergastolani. Le forze israeliane dovranno ritirarsi da parte della Striscia entro 72 ore, aprendo corridoi per l’ingresso immediato di aiuti umanitari.

Trump l’ha definito un “giorno storico” e ha ringraziato i mediatori arabi; Netanyahu ha parlato di “vittoria nazionale”; Hamas ha chiesto garanzie che Israele rispetti l’accordo “senza ritardi né disconoscimenti”. Sul terreno, però, la tregua resta fragile: nella notte dell’annuncio si sono registrati nuovi raid nel nord di Gaza.

Per l’Europa, che finanzia la maggior parte degli aiuti civili e vede ogni escalation tradursi in tensioni regionali e movimenti di persone, la tregua non è un dossier lontano ma una partita che tocca sicur

Il piano in 21 punti

La Casa Bianca ha diffuso il testo integrale del “21-point peace plan”, che delinea un percorso a fasi: cessate il fuoco, scambio di prigionieri, ritiro israeliano e avvio di una gestione transitoria della Striscia.

La governance di Gaza, secondo Washington, passerà a un comitato tecnico palestinese “apolitico”, supervisionato da un organismo internazionale chiamato Board of Peace, presieduto dallo stesso Trump insieme a leader stranieri, tra cui l’ex premier britannico Tony Blair. Hamas ha già respinto la presenza di Blair e l’idea di una “tutela straniera”, ribadendo che “la resistenza armata resta un diritto finché dura l’occupazione”.

La sicurezza interna sarà affidata a una Forza di Stabilizzazione Internazionale con componenti arabe e occidentali, incaricata di addestrare le future forze di polizia palestinesi e garantire che la Striscia non torni a rappresentare una minaccia per i vicini. Israele, in cambio, dovrà ritirarsi progressivamente, mantenendo il diritto di difesa contro eventuali attacchi.

Il piano prevede inoltre un programma di ricostruzione economica, una “zona economica speciale” per attrarre investimenti e, in prospettiva, un dialogo verso lo Stato palestinese, subordinato alla riforma dell’Autorità Nazionale Palestinese. Un impianto ambizioso che, sulla carta, punta a trasformare Gaza in un’area “deradicalizzata e autonoma”. Resta da capire se i protagonisti sul campo lo considerino realistico.

L’Europa si muove

Bruxelles ha accolto l’intesa come un’occasione concreta ma fragile. “Tutti gli ostaggi devono essere liberati e un cessate il fuoco permanente deve essere stabilito”, ha dichiarato la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, assicurando che l’Ue “continuerà a sostenere la consegna sicura degli aiuti e, quando sarà il momento, la ricostruzione”.

Kaja Kallas parla di “una reale chance di fine della guerra”, mentre António Guterres invita tutte le parti a “rispettare pienamente i termini” e conferma la disponibilità dell’Onu ad aumentare l’assistenza. In Italia, Giorgia Meloni ringrazia Trump e i mediatori per “una straordinaria notizia che apre la strada al ritiro delle forze israeliane e al rilascio degli ostaggi”, e Antonio Tajani ribadisce che “l’Italia è pronta a contribuire alla ricostruzione di Gaza e, se necessario, a una forza internazionale di pace”.

Per l’Unione, il passaggio è delicato: passare dal ruolo di donatore principale a quello di attore politico comporta rischi e responsabilità. Finanziamenti, personale e strumenti di monitoraggio dovranno essere coordinati, evitando sovrapposizioni con gli Stati Uniti e i partner arabi. Bruxelles dispone di competenze tecniche — addestramento civile, gestione di valichi, controllo dei fondi — che possono rendere concreto ciò che oggi è solo un protocollo.

La vera leva europea non è militare ma istituzionale: garantire trasparenza, audit sugli aiuti e rispetto dei diritti umani. In un contesto dove la sfiducia reciproca è totale, questa capacità di “verifica neutrale” può valere quanto una divisione di truppe.

Dalla Striscia al Mediterraneo

La tregua, se reggerà, inciderà subito sul Mediterraneo. Una riduzione stabile delle ostilità significherebbe meno pressioni migratorie dalla sponda sud, minori rischi di radicalizzazione e più margine per riaprire corridoi commerciali e progetti energetici fra Israele, Egitto e Unione europea. La stabilità egiziana, che dipende anche dal controllo del valico di Rafah, è ormai parte della sicurezza europea.

Il piano americano prevede la riabilitazione delle infrastrutture di base — acqua, elettricità, ospedali — con l’aiuto di Nazioni Unite e Mezzaluna Rossa. Qui le imprese europee potranno contribuire con competenze industriali e tecnologiche, ma la sfida è evitare che la ricostruzione diventi una rendita politica. Per questo serviranno criteri trasparenti e un coordinamento diretto con la futura amministrazione civile di Gaza.

Il patriarca latino di Gerusalemme Pierbattista Pizzaballa ha definito l’intesa “un primo passo che restituisce fiducia”. Ma la fiducia, nel linguaggio diplomatico, è una moneta a breve scadenza. Se nelle prossime 72 ore gli ostaggi verranno rilasciati, le truppe israeliane arretreranno e i camion umanitari entreranno davvero, la tregua avrà basi su cui costruire. In caso contrario, si rischia l’ennesima pausa destinata a frantumarsi sotto il peso della realtà.

Per l’Europa, l’obiettivo è semplice ma impegnativo: trasformare questa tregua in un processo verificabile, ancorato a numeri e non a promesse. È una sfida politica e tecnica insieme — e una prova di maturità per la politica estera comune.