Tassare i Paesi Ue che spendono di meno in difesa, la proposta del think tank Bruegel

Un prelievo sugli Stati ‘indietro’ li incentiverebbe a spendere di più, mentre il ricavato andrebbe nelle casse comuni per le sfide strategiche dell’Unione
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Bandiere Ue

Tassare i Paesi che non spendono abbastanza in difesa e destinare i fondi così reperiti alle altre politiche chiave dell’Unione europea. Quello che propone il think tank Bruegel, di stanza a Bruxelles, in sostanza è un modo per aumentare le entrate del bilancio comune, attraverso un’imposta sul deficit di spesa in materia di sicurezza.

Anche chi spende meno beneficia della difesa collettiva

La proposta di Bruegel parte da un dato di fatto: i Ventisette destinano alla difesa differenti quote del Pil, ma poi della sicurezza beneficiano tutti, compreso chi ha dato di meno. Il paper cita i due casi dell’Irlanda e della Lettonia, che nel 2023 hanno destinato rispettivamente lo 0,2% e il 3,1% del Pil al settore.

Per riequilibrare questa situazione, propongono gli autori, sarebbe utile un “contributo per carenza di spesa in difesa”, che avrebbe diversi vantaggi: affrontare lo squilibrio nella spesa per la difesa nazionale, incentivare i Paesi con una spesa bassa a spendere di più, e avere maggiori risorse per altre importanti politiche comuni.

Quali? Il paper cita la transizione verde, la competitività, la politica estera e il rimborso del debito attraverso il fondo di ripresa post-pandemico NextGenerationEU. Impegni per i quali, calcola Bruegel, “sarà essenziale un ulteriore 0,9% del reddito nazionale lordo (Rnl) nella spesa comunitaria, pari a quasi il raddoppio del bilancio Ue in percentuale del Rnl”.

Ma Bruxelles non ha non ha poteri di imposizione fiscale, e le entrate dovute alle sanzioni per violazioni del diritto comunitario non consentono grandi manovre. In pratica, fa affidamento sui versamenti dei Paesi membri, a valere sui loro bilanci nazionali. Per aumentare le entrate, dunque, o gli Stati versano più contributi in base al loro reddito nazionale lordo (RNL) oppure occorre trovare (e concordare) nuovi meccanismi di raccolta. Da qui la proposta del think tank.

Come funzionerebbe la nuova tassazione

Gli autori del paper propongono che l’imposta venga calcolata in base alla differenza tra la spesa nazionale per la difesa rispetto al Pil e un parametro di riferimento come la media Ue o un valore fisso, ad esempio il 2% del Pil. A pagare sarebbero solo i Paesi sotto tale soglia, quelli insomma che contribuiscono di meno alla difesa collettiva.

Sulla differenza tra quanto spende ogni Paese e il valore di riferimento stabilito, la proposta prevede di prelevare il 25%. Quindi, ad esempio, se uno Stato spende l’1% in difesa e il benchmark è fissato al 2%, avrebbe un gap dell’1% su cui verrebbe calcolato il 25% da versare al bilancio comune.

Ovviamente meno si spende in difesa più grande è questa differenza rispetto al valore-soglia e dunque più ‘pesa’ il 25% di prelievo. Il che sarebbe un incentivo ad aumentare gli investimenti in sicurezza da parte dei Paesi che investono di meno.

Inoltre, l’introduzione di un indicatore complementare potrebbe affrontare la disparità negli appalti della difesa, penalizzando i Paesi che favoriscono ingiustamente i fornitori nazionali rispetto a quelli di altri membri dell’Unione (oltre una soglia concordata)” e che in tal modo ostacolano lo sviluppo di un mercato unico europeo della difesa.

Quanto porterebbe nelle casse europee il nuovo contributo?

Quanto potrebbe entrare nelle casse comuni, con questo sistema? Gli autori calcolano, a titolo di esempio, che “se la soglia fosse fissata alla media Ue e l’aliquota di prelievo al 25%, i 13 Paesi che spenderebbero meno per la difesa contribuirebbero con 8 miliardi di euro all’anno al bilancio europeo. Se la soglia fosse pari al 2% del Pil con la stessa aliquota di prelievo, i 21 Paesi che spenderebbero meno contribuirebbero con 30 miliardi di euro all’anno. Il calcolo è stato effettuato su dati del 2023.

“Pur essendo politicamente delicata, questa nuova risorsa sottolineerebbe l’impegno dell’Ue per la sicurezza collettiva”, affermano gli autori, toccando un aspetto non marginale della questione.

Infatti, mentre i Paesi membri dell’Alleanza Atlantica hanno approvato la scorsa settimana l’aumento delle spese per la difesa al 5% del Pil (la proposta di Bruegel è precedente) e l’Ue basa la propria sicurezza futura sul piano REarmEU, gli Stati non sono davvero compatti. La Spagna ad esempio ha firmato l’accordo Nato solo dopo che il segretario generale Mark Rutte le ha garantito (in separata comunicazione) una formula sufficientemente ambigua, e i Paesi più indebitati, come l’Italia, si trovano tra l’incudine – aumentare la spesa – e il martello – il deficit pubblico.

La proposta di Bruegel dunque potrebbe aprire un fronte nuovo nel dibattito sull’equità contributiva in materia di difesa, ma senza un consenso politico ampio l’idea rischia di restare teoria, come forse la stessa ambizione di una difesa comune europea.