Due giorni di esercitazioni militari nelle acque vicino a Taiwan. Questa è l’ultima mossa della Repubblica Popolare Cinese che si avvicina ogni giorno di più ai “separatisti” dell’arcipelago dove lunedì è iniziato il mandato presidenziale di Lai Ching-te.
Secondo Pechino, Taiwan resta una provincia da riunificare alla Cina comunista, che non ne ha mai riconosciuto la sovranità e ne ripudia l’autodeterminazione e democraticità. Ma perché, se la Cina tocca Taiwan reagisce anche l’Unione europea? Scopriamolo insieme.
La Cina intimorisce Taiwan
Nessun avvertimento di un’esercitazione militare. Ad essere state prese di mira nell’ultima mossa di soft power della Cina sono le isole di Taiwan. Non c’è più dialogo tra i due “stati” da quando il 20 maggio si è insediato il nuovo presidente taiwanese democraticamente eletto a gennaio con il 40% dei voti, a maggioranza relativa. Il nuovo presidente promette di difendere la democrazia dalle minacce cinesi e intende mettere fine alle intimidazioni politiche e militari. Nel suo discorso d’insediamento ha ringraziato i cittadini “per aver resistito alle pressioni di forze esterne e per aver difeso con determinazione la democrazia”.
Le stesse pressioni, però, che negli ultimi giorni minacciano l’isola perché considerata da Pechino un “pericoloso separatista”, perché per Xi Jinping, la Cina è una e una sola e unica.
Taiwan e Unione europea
Nella giornata di ieri, il Servizio diplomatico dell’Unione europea si è pronunciato esprimendo solidarietà all’isola. “Le attività militari della Cina iniziate oggi intorno a Taiwan aumentano le tensioni nelle due sponde dello Stretto – si legge nella nota -. La pace e la stabilità nello Stretto di Taiwan sono di importanza strategica per la sicurezza e la prosperità regionale e globale. L’UE ha un interesse diretto al mantenimento dello status quo nello Stretto di Taiwan. Ci opponiamo a qualsiasi azione unilaterale che modifichi lo status quo con la forza o la coercizione. Tutte le parti dovrebbero dar prova di moderazione ed evitare qualsiasi azione che possa ulteriormente intensificare le tensioni nelle due sponde dello Stretto, che dovrebbero essere risolte attraverso il dialogo”.
Ma quali sono “gli interessi diretti” dell’Unione europea nei confronti di Taiwan?
Taiwan, anche detta Repubblica di Cina (RDC), è costituita dal gruppo di isole di Formosa, Pescadores, Quemoy e Matsu e, nella sua costituzione, rivendica anche la Cina Continentale e la Mongolia Esterna.
A livello formale, non è riconosciuta come Stato dai membri del Consiglio di sicurezza dell’Onu, dagli altri paesi dell’Unione europea né dalla Cina stessa. Fino a qui nulla di nuovo, se non che Taiwan è membro dell’Organizzazione mondiale del commercio dal 2002 e intrattiene intensi rapporti commerciali ed economici con tutti gli Stati menzionati. A luglio 2013, ha firmato il suo primo Accordo di libero scambio (FTA) con la Nuova Zelanda, gettando le basi per accordi simili con gli altri paesi. Paesi che non si sono tirati indietro. La stessa Unione europea, sin dal 2003 ha una rappresentanza economica e commerciale della Commissione a Taipei. E, per Taiwan, l’Ue rappresenta il quarto partner commerciale, solo dopo Cina, Usa e Giappone. Oltretutto l’Europa detiene una parte considerevole degli stock di investimenti diretti esteri in tale area ed è un investitore attivo.
Dalla ricerca alla tecnologia, passando per società di informazioni, educazione, cultura, ambiente, Taiwan ha visto un aumento degli scambi con l’Ue. Il 9 ottobre dello scorso anno, il Parlamento europeo ha adottato una risoluzione sulle relazioni commerciali tra le due con cui invitava la Commissione ad avviare colloqui con il governo di Taipei per approfondire le relazioni economiche e commerciali. Come reagirebbe, quindi, l’Unione europea ad un presunto attacco da parte della Cina?
Innanzitutto, rappresenterebbe una sconfitta per le democrazie mondiali. Secondo, non è escluso che intervengano gli Stati Uniti, con il presidente Biden che in quattro diverse occasioni ha promesso di difendere l’isola (mentre ogni volta l’Amministrazione ha ribadito la “One China policy”, secondo la dottrina dell’ambiguità strategica). Se gli Usa, che hanno rinnovato il proprio impegno ad un dialogo costante con Taiwan anche dopo le elezioni del nuovo presidente, dovessero entrare in guerra con la Cina, al primo attacco cinese su suolo americano – ad esempio contro una delle basi del Pacifico – potrebbe scattare l’art. 5 del Trattato Nato, che prevede la difesa collettiva di tutti gli altri membri. E poi ovviamente ci sarebbero gli effetti sulle economie mondiali: basterebbe già la paralisi della Tsmc, Taiwan Semiconductor Manufacturing Company, ovvero la più grande produttrice di semiconduttori avanzati al mondo, per effetti a catena devastanti sul commercio internazionale.