Si conclude la vicenda Pfizergate, almeno a livello giudiziale. Sono infatti scaduti i termini entro i quali la Commissione europea poteva presentare appello contro la pronuncia della Corte di Giustizia dell’Ue, che lo scorso 14 maggio l’ha riconosciuta colpevole di scarsa trasparenza in merito ai messaggi scambiati tra la presidente Ursula von der Leyen e l’amministratore delegato di Pfizer Albert Bourla prima che l’Unione affidasse al colosso farmaceutico la fornitura dei vaccini contro il Covid-19. La Commissione non si è mossa, e dunque la sentenza diventa definitiva.
La suprema Corte due mesi fa ha stabilito che l’organo esecutivo dell’Ue non solo non ha reso pubblici i messaggi tra von der Leyen e Bourla, ma non ha neanche motivato in modo adeguato perché gli sms non siano stati conservati. La Commissione aveva sostenuto semplicemente che non ci fossero informazioni rilevanti: una spiegazione ritenuta insufficiente dal tribunale.
Rimane quindi sul capo della prima Commissione von der Leyen, e di riflesso sull’attuale organo esecutivo, guidato ancora dalla tedesca, l’ombra della scarsa trasparenza e di una mala gestione di tutta la questione.
Il caso Pfizergate
Il caso nasce nel 2011, quando il New York Times rivelò l’esistenza dell’ormai famoso e famigerato scambio di messaggi tra von der Leyen e Bourla in piena pandemia, prima dell’accordo sui vaccini stipulato tra Pfizer e l’Unione, il più sostanzioso nella storia del blocco in termini monetari.
I giornalisti chiesero di vedere i messaggi, ma questi non sono mai stati resi noti, e con tutta probabilità mai lo saranno. Lo stesso tribunale, nella sentenza, ha rilevato che recuperare gli sms è tecnicamente difficile.
Un portavoce della Commissione ha sottolineato che, in linea con la pronuncia, la Commissione avrebbe fornito “una spiegazione più dettagliata del motivo per cui non detiene i documenti richiesti”. E mentre rimane ignoto il perché del mancato ricorso, il portavoce ha aggiunto che la Corte “non ha messo in discussione la politica di registrazione della Commissione in merito all’accesso ai documenti”, e che l’esecutivo europeo “resta pienamente impegnato a mantenere l’apertura, la responsabilità e una comunicazione chiara con tutte le parti interessate, comprese le istituzioni dell’Ue, la società civile e i rappresentanti degli interessi”.
Ma il risultato è che così si lascia il campo aperto a qualsiasi supposizione sul contenuto dei messaggi e ci si espone ad accuse di opacità e di agire al di fuori delle norme: accuse tanto più gravi nel momento in cui la Commissione ha sempre fatto della trasparenza e del rispetto della legge la sua bandiera. E sono proprio queste le critiche che fin dal 2021 attivisti, parlamentari e giornalisti hanno mosso all’esecutivo europeo e alla sua capa, assieme alla denuncia dell’impunità in cui si muoverebbero i funzionari di più alto livello.
Leadership di von der Leyen in crisi
La questione ha già avuto delle conseguenze pratiche: il 10 luglio von der Leyen si è dovuta sottoporre a un voto di sfiducia all’Europarlamento, un evento decisamente raro per l’Unione. La mozione era stata presentata dall’eurodeputato romeno di destra Gheorghe Piperea (Aur – eurogruppo Ecr) e, sebbene la capa dell’esecutivo l’abbia superata agevolmente, non sarà facile per lei recuperare le crepe intorno alla sua leadership, minata anche da altre questioni come la marcia indietro sul Green Deal e, non da ultimo, l’accordo sui dazi raggiunto con Donald Trump domenica scorsa. E forse proprio il momento politicamente difficile che la tedesca sta attraversando è alla base del mancato ricorso.
In occasione della mozione, comunque, von der Leyen per la prima volta si è espressa sulla vicenda, definendo le accuse “semplicemente false”. Una dichiarazione laconica che certamente non basta a fare luce sul caso né tanto meno a sedare le critiche. Se il filone giudiziario può dirsi concluso, gli strascichi della vicenda potrebbero non esserlo affatto.