Guerra ibrida, disinformazione, droni: da mesi l’Europa ragiona su forme nuove di conflitto. Ma c’è un altro fronte, meno “visibile” e già operativo, che riguarda direttamente il rapporto con Washington nell’era Trump. È una guerra culturale, quella portata avanti dal presidente degli Stati Uniti, che punta a spostare il baricentro ideologico del Vecchio Continente e a indebolire l’idea stessa di “Europa” come spazio politico autonomo e dunque come attore globale. In altre parole: non è solo attrito commerciale o un braccio di ferro su spese militari e dazi. È una contesa su valori, identità e legittimità, e in definitiva potere.
Si tratta di una frattura su cui già due mesi fa metteva in guardia un paper dello European Council of Foreign Relations a firma del senior policy fellow Pawel Zerka, e che sembra trovare conferma in questi giorni concitati in cui l’Unione si trova davanti a decisioni delicatissime, viene accusata da Trump di essere debole, in decadenza e confusa, e la nuova Strategia di sicurezza americana (Nss) appena pubblicata dice chiaramente che occorre “coltivare la resistenza alla traiettoria attuale dell’Europa dall’interno delle nazioni europee”.
Per farlo, spiega Zerka, l’amministrazione americana sta già agendo su due fronti: sfruttando la polarizzazione delle società e l’ascesa della “nuova destra” europea da un lato, e usando le divisioni e le esitazioni tra i leader dell’Unione dall’altro, oltre alla dipendenza reale o presunta dei paesi dagli Stati Uniti.
Il bersaglio principale è l’idea di Europa
Nella logica trumpiana, continua il paper, l’Europa diventa un simbolo da colpire: il luogo dove si concentrerebbero i mali del liberalismo contemporaneo – multiculturalismo, regolazione, tutela dei diritti come limite al potere, compromesso multilaterale. È una lotta sui confini simbolici di chi siamo “noi” e su cosa sia l’Occidente, nella dicotomia tra “mondo libero” universalista e civiltà identitaria (bianca/cristiana) da difendere.
Questa impostazione emerge chiaramente nella Nss pubblicata due settimane fa dalla Casa Bianca : il testo dipinge l’Europa come continente in declino economico e di civiltà, accusando l’Unione e altri organismi transnazionali di minare libertà politica e sovranità e collegando a migrazioni, scarsa natalità e libertà di parola l’idea di una possibile “cancellazione” dell’identità europea.
Ma se il disaccordo politico diventa una sorta di diagnosi morale e l’Europa è descritta come “malata” di liberalismo, allora l’obiettivo non è trattare su un dossier ma è “correggere” la traiettoria, riportando il continente sugli unici binari ammessi: quelli compatibili con la versione Maga (Make America Great Again) dell’Occidente.
Il “momento Monaco” rivela la frattura
Il punto di svolta, secondo gli esperti, è avvenuto alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco del febbraio 2025. Nel suo intervento, il vicepresidente Usa J.D. Vance ha rovesciato il frame classico della sicurezza europea: la minaccia principale non sarebbe esterna (Russia o Cina), ma interna, ovvero “il ritiro dell’Europa” da valori fondamentali condivisi con gli Stati Uniti. Dentro quel frame entrano due temi: la libertà di parola (compressa dalla regolazione e dal contrasto ai contenuti d’odio/disinformazione) e la gestione della migrazione, letta come prova di scollamento tra élite e cittadini.
Poco tempo dopo, un articolo a firma Samuel Samson sulla newsletter del Dipartimento di Stato americano, guidato dal segretario Marco Rubio (‘The need for Civilizational Allies in Europe’ – ‘La necessità di alleati di civiltà in Europa’) sostiene che il Vecchio Continente sia in pieno “arretramento democratico”, cosa che minaccerebbe la sicurezza degli Stati Uniti. Dunque, l’Europa deve fare qualcosa per tornare nel solco dei valori condivisi storicamente con gli Usa, mentre questi avrebbero un motivo per intervenire.
L”assalto’ in tre direzioni: elezioni, valori, libertà di parola
La guerra culturale, spiega l’esperto di Ecfr, avviene tramite tre “tecniche”:
- interferenza nei processi politici europei. Gli Usa sostengono attivamente le forze di destra europee, sia dando loro una sorta di legittimità sia influenzando le elezioni, normalizzando l’attivismo politico transnazionale e offrendo fondi, supporto e infrastrutture. L’obiettivo è imporre una versione Maga dell’Occidente e della democrazia stessa. Think tank come la controversa Heritage Foundation sono pienamente inseriti in questo sforzo;
- narrazione dei rapporti Ue – Usa come una divisione di valori. Questo sposta il terreno: se il discorso è morale, ogni compromesso europeo diventa prova di debolezza o tradimento, mentre ogni regolazione diventa “censura” o “autoritarismo”. È un frame che polarizza e costringe il mainstream europeo a inseguire e difendersi;
- uso della libertà di parola come arma politica. Per tale via, un terreno complesso ma normativo (bilanciamento tra libertà d’espressione e altri diritti, responsabilità delle piattaforme, tutela delle minoranze, disinformazione) diventa un conflitto morale nettamente diviso: “noi” libertà, “voi” censura. Il Digital Services Act e, in generale, l’ambizione regolatoria europea diventano così un bersaglio ideale, raccontato come attacco all’Occidente piuttosto che come governance di mercato.
Il paradosso è che l’accusa di censura all’Europa arriva da una amministrazione accusata a sua volta di pressioni su media, università, biblioteche, cultura pop, e che ha recentemente definito ‘terroristi’ persone scese in piazza pacificamente per esprimere dissenso contro le politiche in atto. Ma nella logica della guerra culturale le contraddizioni non sono un problema, perché l’obiettivo non è la coerenza ma la mobilitazione identitaria. “Libertà di parola” diventa un’espressione che consente di costruire coalizioni tra pezzi diversi della nuova destra europea: alcuni possono essere scettici verso Trump, ma possono comunque usare quel frame per colpire il “liberalismo istituzionale” in casa propria.
Perché Trump ‘odia’ l’Europa
Arriviamo alla domanda di fondo. Perché Trump odia l’Europa? Le ragioni sono diverse:
- motivo ideologico: l’Europa come anti-modello del Maga. Se l’Ue resta, per molti cittadini e osservatori nel mondo, un simbolo di democrazia e di stato di diritto, allora diventa anche uno specchio scomodo per un progetto politico che spinge verso un ordine “post-liberale”.
- motivo di potere: un’Europa unita è più difficile da gestire. Trump preferisce accordi bilaterali e rapporti tra leader: un blocco coeso negozia da pari, un continente diviso negozia da ‘clienti’ più deboli, offrendo maggiore spazio per imporre condizioni su commercio, tecnologia, sicurezza;
- motivo economico-regolatorio: la guerra contro la “regulatory Europe”. La Nss 2025 parla esplicitamente di regolazioni europee come fattore di declino economico e “soffocamento regolatorio”. Ma questa lettura si incrocia con gli interessi materiali delle Big Tech, alleate di Trump.
Il Truman Show europeo
L’Europa è intrappolata in un Truman Show con “l’America di Trump sulla sedia del regista”, afferma Zarka con riferimento al film del 1998 in cui Truman Burbank, interpretato da Jim Carrey, è protagonista a sua insaputa di un reality show in cui di fatto è prigioniero. Quando lo scopre, deve scegliere se continuare a vivere nella realtà che conosce o andare a vedere cosa c’è fuori. Per rimanere in ambito cinematografico, l’Europa deve decidere se prendere la pillola rossa o la pillola blu di Matrix, e in sostanza aprire gli occhi di fronte a una realtà diversa da quella conosciuta e su cui si è accomodata per decenni.
Il pericolo non è solo quello ‘pratico’, cioè reagire a crisi dettate da altri – guerra commerciale, disimpegno, attacco ai valori fondanti – invece di essere protagonista attivo. È anche l’interiorizzazione della narrazione. Se l’Europa accetta sistematicamente il ruolo di comparsa, la subordinazione diventa “consenso”, normalizzata attraverso media, simboli e linguaggi.
In sostanza, secondo Zarka, “Trump e i suoi accoliti possono farla (la guerra culturale, ndr) solo perché gli europei glielo permettono”. E questo a causa della dipendenza (reale o percepita) dagli Stati Uniti su difesa, tecnologia, energia; delle divisioni tra governi e della lentezza decisionale; della polarizzazione interna su migrazione, clima, identità; delle difficoltà dell’Ue a essere all’altezza dei propri ideali in alcune crisi.
Vedendola in positivo, ciò significa che gli europei hanno margine d’azione per resistere e non farsi fagocitare. E devono farlo, asserisce il paper. Quasi tutti gli Stati membri hanno ancora governi filoeuropei guidati da esponenti del mainstream, e il “sentimento europeo” – il senso di appartenenza a uno spazio comune, di condivisione di un futuro comune e di adesione a valori comuni – è ancora forte, anche se non in modo omogeneo nel blocco. Questa è la base perché l’Ue trovi il coraggio di agire e difendere i propri valori, diventando “attore autonomo nella politica transatlantica e globale”, afferma Zarka.
Uscire dal set: cosa significa “resistere” senza imitare il Maga
La via d’uscita non è fare la guerra a Trump sul piano retorico. È ridurre gli spazi di ricatto (difesa, tecnologia, energia), smettere di confondere adulazione con strategia e, soprattutto, non regalare la cornice valoriale agli avversari, chiarisce il paper. Perché se l’Europa si limita a inseguire l’agenda di crisi, si troverà sempre a reagire: e in una guerra culturale, reagire è già metà della sconfitta. E dunque: i partiti tradizionali devono riconquistare fiducia nell’Europa, appropriandosi di concetti controversi come sovranità, nazionalismo e patriottismo per rafforzarla; i leader devono essere assertivi e assumersi maggiori responsabilità; la Commissione dovrebbe utilizzare con convinzione gli strumenti esistenti; la nuova destra europea, infine, dovrebbe considerare che, se i trumpiani avranno successo, per gli Stati Uniti sarà più facile calpestare la sovranità e la prosperità dei singoli Paesi europei.
