Perché l’Antitrust in Europa non ha funzionato. Parla Cristina Caffarra

L'economista è dura con le Big Tech ma è durissima con le autorità europee. "Il Dma non sta avendo nessun risultato"
4 mesi fa
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Cristina Caffarra
Cristina Caffarra

Il Brussels Effect? Non esiste. L’Antitrust europeo? Negli ultimi anni ha ottenuto il seguente punteggio: zero. I mercati si sono concentrati, le disuguaglianze sono aumentate, e noi europei ci illudiamo di essere diventati gli arbitri del mondo. Questo è il pensiero di Cristina Caffarra, economista italiana che vive tra Londra e Bruxellesda molti anni, ribattezzata da Politico “Grande Sacerdotessa dell’Antitrust”. Cristina è dura con le Big Tech, ma è durissima con le istituzioni europee, che pensano di aver regolamentato i giganti tecnologici attraverso il Digital Markets Act ma che in realtà continuano a non ottenere risultati concreti, né per i cittadini né per le piccole e medie imprese.

Partiamo dalla politica europea della concorrenza. Si chiude il decennio di Margrethe Vestager, per due mandati commissaria alla Concorrenza, e ora è il momento di capire cosa potrà succedere con la nuova commissione

Per capire dove siamo diretti, bisogna capire da dove veniamo, perché questo è un momento di completa oscillazione del pendolo dal punto di vista dell’antitrust, ma più generalmente dell’ economia politica. Questo decennio, che corrisponde ai due mandati di Vestager, ha visto un cambiamento a livello globale, ma non europeo, del paradigma antitrust. L’attuale compagine dei regolatori di Biden, composta da Lina Khan (Federal Trade Commission) e Jonathan Kanter (Dipartimento di Giustizia), ha abbandonato la visione neoliberale dell’antitrust, che imponeva solo di massimizzare l’efficienza economica e la convenienza del consumatore. Oggi invece si parla di concorrenza come strumento di politica economica, che presiede all’allocazione degli asset nell’economia. E che contribuisce a realizzare obiettivi fondamentali come uguaglianza, giustizia, democrazia, libertà.

In Europa, dove abbiamo importato la visione antitrust americana intorno al 2000, siamo fermi. Siamo come quegli aerei che girano in tondo sopra l’aeroporto aspettando di atterrare. E Vestager non ha spostato l’asse della sua DG. Nelle istituzioni europee c’è una burocrazia difficile da spostare, circondata da soggetti deferenti che non la sfidano mai. Che ama parlare di Brussels effect.

Non c’è il Brussels effect, quel fenomeno per cui gli altri Paesi si allineano alle nostre regole anche se non sarebbero costretti a farlo, per l’importanza del nostro mercato e la validità delle suddette regole, quando si parla di concorrenza?

Ma quando mai! Il mondo si è mosso e gli Stati Uniti, dopo vent’anni in cui non avevano fatto niente, ci hanno superato, anche intellettualmente, sul tema antitrust. In Europa manca il dibattito accademico, di economia politica, una riflessione su dove vogliamo andare nei prossimi cinque anni. Abbiamo concluso pochissimo: i mercati i sono concentrati, la disuguaglianza è aumentata e siamo totalmente soggetti feudali delle Big Tech. Ti guardi indietro e negli ultimi dieci anni cosa ha fatto l’antitrust europeo? Ci ha provato, ma in termini di risultati un bello zero.

Cosa pensi dei rapporti di Draghi sulla competitività e di Letta sul Mercato Unico, nonché dell’ormai famigerato discorso di Macron alla Sorbona? C’è il tentativo di cambiare il paradigma economico dell’Unione? E Come sarà accolto questo tentativo?

Macron ha fatto questo discorso epico e apocalittico su come siamo messi male in Europa, e questo è un sentimento che trapela anche da Draghi e Letta, un’analisi estremamente lucida sulla posizione europea e il gap tra Europa e altre potenze globali come Cina e Stati Uniti. Ma lo diceva anche Mario Monti nel 2010: siamo un blocco frammentato, l’Unione è un’idea ma nei fatti non esiste. Ci sono barriere, eccessiva burocrazia, ragioni strutturali che fanno rimanere indietro la nostra produttività, l’innovazione non decolla. Abbiamo 27 stati membri e 37 operatori telefonici. Come possiamo competere e scalare nel mercato globale? Soprattutto è molto difficile fare investimenti. Sia Draghi che Letta pensano sia necessario ripensare l’antitrust e consentire una certa misura di consolidamento, nelle telecomunicazioni come in altri settori strategici. Ma questo è un passaggio delicato. Come ci poniamo di fronte alle fusioni? Ci siamo già consolidati parecchio.

DG Comp in realta’ resta un bastione neoliberale, hanno una visione ortodossa e tecnocratica del mondo. Appena si parla di rilassare le regole sulla concorrenza c’è una levata di scudi, se parliamo di campioni nazionali, o campioni europei come nel caso Ita-Lufthansa, si grida subito allo scandalo. Eppure non è che la fedina di Dg Comp sia immacolata: hanno fatto passare di tutto e di più. Abbiamo consolidato il chimico, il petrolchimico, l’agrochimico, la farmaceutica. Ho seguito molti casi di compagnie aeree, è passato di tutto con rimedi inesistenti. Quando ci saranno le audizioni di conferma dei prossimi commissari in parlamento, la concorrenza sarà un grandissimo terreno di battaglia, perché molti eurodeputati hanno un’opinione forte in materia di concorrenza, e non sono affatto convinti che Dg Comp stia facendo le scelte giuste.

Come giudichi il Dma, il Digital Markets Act, il regolamento che riforma la concorrenza europea e crea la categoria dei gatekeeper, le grandi aziende in grado di orientare il mercato che hanno dei doveri in più rispetto alle altre?

Fammi precisare che non sto assistendo nessun cliente in questo campo, e che ti parlo da indipendente. Il Dma nasce come risposta al fallimento totale dell’antitrust in questo settore. Vestager ha seguito dei casi meritori, come con Google Search nel 2014, poi Google Android, ci sono state decisioni su Amazon, Apple, ma questi casi sono finiti nel nulla. Perché la situazione on the ground non è cambiata assolutamente. L’enforcement antitrust è dunque fallito, per le lungaggini e i rimedi totalmente inefficaci, e allora si è pensato di regolare ex ante. Diciamo alle società di fare questo e quello, sicuramente sarà meglio di metterci dieci anni per fare un’analisi ex post di tutto quello che hanno fatto (senza poi vincere mai). La realtà è che anche questo approccio regolamentare è inadeguato e insufficiente davanti alla realtà del 2024. Le piattaforme dal 2010 a oggi sono cresciute, le abbiamo lasciate consolidare, hanno preso tutti i nostri dati, sono entrate nelle infrastrutture. Quindi oggi parliamo di effetti possibili della regolamentazione. Qualche regoletta che non toccherà affatto il potere di mercato delle Big Tech.

Tempo fa prevedevi un diluvio di contenziosi che avrebbe seguito l’entrata in vigore. Sta avvenendo?

In pratica, queste società stanno chiedendo alla Commissione: cosa devo fare per essere compliant con il Dma? E la Commissione risponde: ah, ma non te lo posso dire, sei tu che devi leggere la norma e adeguarti. Fammi un piano di compliance. Loro presentano il piano di compliance e i complainants strepitano che non va bene. E di nuovo le aziende chiedono cosa dovrebbero fare. E di nuovo Dg Comp spiega che devono essere proattivi e proporre loro delle soluzioni per limitare il loro strapotere. E così va avanti questo ping pong, un ciclo infinito, che allunga i tempi e azzera i risultati. Invece il regolatore deve essere perentorio, darti delle indicazioni chiare su quali attività compiere.

Di nuovo si apriranno delle indagini sui piani di compliance, e saremo nel 2025, e nuovo non avremo cambiato nulla in termini di accessibilità del mercato. Quando parlo con le piccole e medie imprese mi dicono che loro il Dma non lo vedono nemmeno. Non è affatto un incentivo per entrare in un mercato che al momento non è contendibile. È una delle cose che trovo più frustranti: ci siamo esaltati sull’essere i primi a regolare le Big Tech, ma non ci rendiamo conto della differenza di potere intellettuale, giuridico, economico che hanno queste aziende. Che non sono affatto spaventate da queste nuove regole.