L’Unione europea come l’Unione sovietica. Gli ungheresi devono “resistere” alla prima come nel 1956 resistettero alla seconda. Proprio la celebrazione dell’anniversario di quella che fu definita ‘primavera di Budapest’ è stata l’occasione per il premier Viktor Orbán di arringare i propri connazionali esortandoli a “non arrendersi a una potenza straniera”.
“Dobbiamo arrenderci alla volontà di una potenza straniera, questa volta di Bruxelles, o dobbiamo resistere? Questa è la grave decisione che attende ora l’Ungheria: propongo che la nostra risposta sia chiara e inequivocabile come lo fu nel 1956”, ha tuonato Orbán dal palco davanti a una folla di sostenitori.
“Bruxelles vuole imporci un governo fantoccio”
L’evento è stato il pretesto per il premier per tirare fuori i suoi cavalli di battaglia, dai migranti all’Ucraina, e soprattutto per accusare in maniera non velata l’Ue di voler instaurare in Ungheria un governo ‘fantoccio’, laddove il fantoccio sarebbe il suo più grosso avversario politico, Peter Magyar, che i più recenti sondaggi dicono aver superato in gradimento il premier. Secondo i dati dell’istituto demoscopico di Budapest, infatti, il partito d’opposizione Tisza di cui Magyar è leader è in vantaggio su Fidesz di Orbán, al potere da 14 anni.
Proprio per arginare questa ascesa, in vista delle elezioni nazionali previste nel 2026, il premier sta spingendo sull’acceleratore del populismo e del nazionalismo. Ha perciò evocato “ricatti dell’attuale impero” e sostenuto: “Sappiamo che vogliono costringerci alla guerra. Sappiamo che vogliono imporci i loro migranti. Sappiamo che vogliono affidare i nostri figli ad attivisti come questi. Sappiamo che hanno il loro governo fantoccio”.
Il paradosso è che le parole di Orbán vengono da uno Stato membro dell’Unione, e oltretutto dal Paese attualmente alla guida del Consiglio dell’Unione europea. Posizione che ha fin da subito e su più fronti creato attriti col resto del blocco, e che ha portato le altre capitali (non tutte) a tenere un bassissimo profilo rispetto alla presidenza ungherese, in attesa che il primo gennaio 2025 il testimone passi alla Polonia.
Il fedelissimo: “Se la Russia ci invade, non opporremo resistenza”,
Solo meno di un mese fa il più stretto e fedele consigliere politico del premier, nonché omonimo (ma nessuna parentela) Balázs Orbán aveva dichiarato: “Se la Russia ci invade, non opporremo resistenza”, aggiungendo che l’Ucraina è irresponsabile perché si oppone all’invasione russa.
“Ogni Paese ha il diritto di decidere del suo destino da solo, ma sulla base del 1956 non avremmo fatto ciò che ha fatto il presidente Zelensky due anni e mezzo fa, perché è irresponsabile”, aveva detto durante un podcast riferendosi alla durissima repressione da parte dell’Unione sovietica della rivolta ungherese.
Proprio per questo Balázs Orbán è stato molto contestate e accusato di aver tradito la memoria delle migliaia di civili uccisi dai sovietici in quell’occasione. Addirittura il premier aveva dovuto riconoscere che il suo consigliere aveva esagerato. Alla fine, il politico si era difeso sostenendo che le sue parole erano state distorte e che i morti del 1956 sono eroi nazionali che hanno fatto la cosa giusta e la cui memoria è sacra.
La primavera di Budapest
La Rivoluzione ungherese del 1956 fu una delle prime e più importanti insurrezioni contro il dominio sovietico in Europa orientale durante la Guerra Fredda. Iniziata il 23 ottobre e terminata l’11 novembre di quell’anno, la rivolta ebbe origine come protesta studentesca a Budapest per chiedere riforme politiche e il ritiro delle truppe sovietiche dall’Ungheria, ma rapidamente si estese in tutto il Paese, coinvolgendo operai, intellettuali e cittadini comuni in una lotta per la libertà e l’autodeterminazione.
Ne seguirono scontri violenti tra manifestanti e forze di sicurezza, e il 24 ottobre il governo ungherese chiese l’intervento dell’esercito sovietico per ristabilire l’ordine.
In risposta alle pressioni dei manifestanti, il Partito Comunista ungherese nominò come primo ministro il moderato Imre Nagy, il quale lanciò un programma di riforme che includeva la libertà di stampa e l’apertura verso l’Occidente. Il 1° novembre, Nagy annunciò l’uscita dell’Ungheria dal Patto di Varsavia e la sua neutralità, chiedendo l’aiuto delle Nazioni Unite per garantire l’indipendenza del Paese.
L’Unione Sovietica rispose con un intervento militare massiccio. Le truppe sovietiche invasero la capitale e le altre principali città ungheresi, soffocando la rivolta in pochi giorni. Entro il 10 novembre, i sovietici avevano ripreso il controllo del Paese.
La repressione fu brutale: circa 3mila civili uccisi, migliaia di feriti e gran parte della capitale distrutta.
Nagy fu arrestato, processato in segreto e giustiziato nel 1958, mentre più di 200mila ungheresi fuggirono all’estero.
A oggi la rivolta antisovietica è considerata una lotta eroica per l’autodeterminazione, tanto che parte degli ungheresi considera le posizioni fortemente filo-russe del governo di Orbán come un tradimento di questo sacrificio.