Norvegia, Støre resiste: la sinistra salva il governo mentre la destra populista avanza

Il premier tiene la guida del Paese, ma la crescita record di Listhaug indebolisce i Conservatori e scuote l’Europa del Nord
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Jonas Gahr Støre, Primo Ministro norvegese e leader del Partito Laburista (Afp)

La Norvegia ha scelto di confermare la leadership di Jonas Gahr Støre, ma lo ha fatto al termine di una delle competizioni elettorali più serrate e polarizzate degli ultimi decenni. Le legislative hanno consegnato alla coalizione di centro-sinistra una maggioranza risicata nello Storting, il parlamento unicamerale da 169 seggi: 87 quelli conquistati dal blocco guidato dai laburisti, contro gli 82 dell’opposizione di destra. Una forbice minima, ma sufficiente perché Støre potesse rivendicare la vittoria davanti ai suoi sostenitori con un lapidario “Ce l’abbiamo fatta”.

Dietro quella frase si nasconde un quadro politico complesso: un governo che resta in piedi, ma che sarà costretto a compromessi quotidiani con partner minori e ad affrontare un’opposizione rafforzata da un exploit senza precedenti del Partito del Progresso. L’onda populista anti-immigrazione guidata da Sylvi Listhaug ha infatti conquistato circa il 24% dei voti, diventando la seconda forza del Paese e relegando i Conservatori di Erna Solberg a un ruolo marginale.

Una vittoria che poggia su equilibri fragili

La vittoria del centrosinistra non cancella la fragilità dei numeri in Parlamento. Il Partito Laburista si è confermato il primo partito con circa il 28% dei consensi, ma il risultato non basta a garantire la stabilità di governo senza il sostegno delle altre sigle progressiste. La coalizione che sostiene Støre è composta da forze con priorità divergenti: dai socialisti di sinistra ai Verdi, passando per i partiti centristi, ciascuno con richieste specifiche che rischiano di complicare l’agenda parlamentare.

Il nodo più immediato riguarda la gestione del fondo sovrano norvegese, il più grande al mondo con oltre 2.000 miliardi di dollari di asset. Gli investimenti in Israele sono già un terreno di scontro tra i partiti di governo, soprattutto dopo le pressioni esercitate dagli elettori più giovani e dalle comunità di origine immigrata, che chiedono una linea dura contro l’espansione militare a Gaza. La guerra in Medio Oriente è stata infatti un tema trasversale di questa campagna elettorale, capace di mobilitare tanto la sinistra quanto la destra.

Non meno divisivi i dossier economici. Il caro vita e la tassazione sui redditi più alti hanno segnato il dibattito pubblico, spingendo molti cittadini a chiedere soluzioni immediate su prezzi alimentari ed energia. Johannes Bergh, ricercatore dell’Istituto per la ricerca sociale, ha sottolineato che “un anno fa i laburisti sembravano spacciati. Ma la nomina di Jens Stoltenberg a ministro delle Finanze e i risultati ottenuti sul fronte commerciale con gli Stati Uniti hanno ribaltato la situazione”.

L’ascesa populista di Sylvi Listhaug e la crisi dei Conservatori

Se la sinistra ha potuto esultare, la sorpresa più dirompente delle urne resta l’avanzata del Partito del Progresso. Guidata da Sylvi Listhaug, 48 anni, la formazione anti-immigrazione ha più che raddoppiato i propri consensi, raggiungendo il miglior risultato della sua storia. Un exploit che conferma la capacità del partito di intercettare il voto di protesta, soprattutto tra i giovani e nei centri urbani colpiti dal caro vita.

I Conservatori, tradizionalmente seconda forza del Paese, sono invece usciti pesantemente ridimensionati, con uno dei peggiori risultati elettorali degli ultimi decenni. La loro leader Erna Solberg ha ammesso la sconfitta personale: “Mi assumo la responsabilità del risultato”. L’emorragia di voti verso il Progress ha reso evidente una dinamica già registrata in altre democrazie europee: la destra tradizionale fatica a competere con i populisti che promettono risposte rapide e drastiche, in particolare sul fronte migratorio.

La stampa internazionale ha letto il fenomeno come una “Maga-fication” della politica norvegese, richiamando il modello americano. Un parallelo che trova eco nella vicinanza retorica di Listhaug a figure come Giorgia Meloni, con cui condivide linguaggio diretto, opposizione frontale al multiculturalismo e un uso mirato dei social come strumenti di mobilitazione.

I temi che hanno polarizzato il voto

L’elezione è stata descritta dal quotidiano Vg come “epocale” e “inaspettatamente ricca di suspense”. A pesare sono stati fattori concreti e immediati: l’inflazione che ha gonfiato i prezzi dei generi alimentari, la crisi energetica legata alla guerra in Ucraina e la discussione sulle imposte patrimoniali. La politica estera ha giocato un ruolo inusuale per una campagna norvegese, con Gaza e le relazioni con gli Stati Uniti al centro delle scelte elettorali.

L’incontro di Støre con Donald Trump alla Casa Bianca, sul tema del commercio, è stato letto come un successo capace di ridare slancio ai laburisti. Lo stesso effetto Stoltenberg ha rafforzato la percezione di un governo più stabile e credibile nella gestione delle turbolenze internazionali. Ma al tempo stesso, le parole d’ordine del Progress – immigrazione, sicurezza, riduzione della spesa sociale – hanno trovato terreno fertile nell’insicurezza economica delle fasce giovanili e nella richiesta di un cambio radicale nelle politiche migratorie.

La polarizzazione non ha quindi seguito soltanto la tradizionale divisione tra classi sociali, ma ha toccato anche il genere e l’età, spingendo molti giovani elettori verso Listhaug e una parte significativa delle comunità immigrate verso i partiti di sinistra. È in questa frattura generazionale e culturale che si colloca il futuro del dibattito politico norvegese: una società ricca e stabile, ma attraversata da tensioni nuove, che le vecchie formule bipartisan non sembrano più in grado di contenere.