Prevenzione, dialogo, partnership. Sono queste le parole chiave che hanno accompagnato la Conferenza dedicata all’aera dell’Indo-Pacifico dalla Nato Defense College Foundation a Roma (17-18 giugno), dal titolo ‘Indo-Pacific 2025: Prevention and Dialogue’. Può sembrare strano che l’Alleanza atlantica, che già nel suo nome si definisce geograficamente, si interessi a una regione che appare lontana. E lo stesso vale per l’Europa e l’Italia, che invece sul tema ha recentemente concluso una serie di audizioni parlamentari molto partecipate. Tuttavia sarebbe un errore sottovalutare l’importanza di quest’area, e il motivo è stato efficacemente sintetizzato da Andrea Romussi, capo Ufficio Nato della Farnesina: “La sicurezza non è più [una questione] regionale ma globale”.
E va oltre la sicurezza: “L’Indo-Pacifico è l’epicentro della geopolitica del XXI secolo, un’area dinamica con oltre la metà della popolazione mondiale e una crescita economica significativa”, ha detto in apertura della Conferenza Max Nilson, comandante del Nato Defense College, per il quale “la questione non è se l’Alleanza Atlantica abbia un ruolo, ma quale forma (questo) debba assumere”.
Il ‘Mediterraneo globale’
Le attuali sfide della Nato, infatti, sono ben più ampie del suo quadrante di interesse originario: riguardano ormai il cosiddetto ‘Mediterraneo globale’, grazie anche al corridoio Imec che collegherà India e Mare Nostrum passando per il Medio Oriente: un legame infrastrutturale, commerciale e di difesa.
Lo ha confermato Walter Di Martino, capo Ufficio Asia Nord-orientale del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale: “La sicurezza nell’Indo-Pacifico e nell’area euro-atlantica non sono più spazi singoli ma un ambiente molto più ampio, un ‘Mediterraneo globale’”.
Basti pensare che Kaush Arha, presidente del Free&Open Indo-Pacific Forum presso l’Institute for Tech Diplomacy dell’Atlantic Council a Washington, ha definito l’India “un Paese mediterraneo”.
Ma quali sono le attuali sfide che la Nato si trova di fronte?
Le nuove sfide della Nato (e dei Paesi dell’Indo-Pacifico)
Le attuali minacce alla sicurezza euro-atlantica sono a largo spettro. Nilson le ha elencate:
• la modernizzazione militare della Cina
• le rotte marittime vitali, che collegano le economie europee e nordamericane ai mercati globali
• le preoccupazioni dei partner stretti – Australia, Giappone, Corea del Sud, Nuova Zelanda: il cosiddetto IP4 – per la sicurezza.
Un discorso approfondito da Ken Kitatani, capo dell’Executive Board and Committee dell’International Council on Environmental Economics and Development di New York: “L’Indo-pacifico oggi racchiude l’intero spettro di sfide e possibilità che il nostro mondo interconnesso deve affrontare”. Ovvero insicurezza economica, insicurezza ambientale, minacce ibride e disinformazione, disuguaglianze.
Ma “queste sfide nascondono opportunità di partnership, innovazione e sicurezza condivisa, basate sulla fiducia, la trasparenza e il dialogo inclusivo”, a partire dal coinvolgimento nei partenariati regionali anche dei piccoli Stati insulari, le comunità indigene e le economie emergenti le cui voci sono troppo spesso messe da parte”, ha aggiunto l’esperto sottolineando al contempo che “le minacce del XXI secolo richiedono un approccio integrato, che colleghi la sicurezza tradizionale con la resilienza ambientale, la stabilità economica e la governance tecnologica”.
Pietro De Matteis, responsabile del Programma per l’Indo‑Pacifico della Nato, ha poi ricordato quattro minacce, sulle quali sono in corso “discussioni chiave con i partner IP4”:
• attacchi cyber
• tecnologie dirompenti
• sostegno all’Ucraina, dove “l’IP4 è stato essenziale per la Nato”
• minacce ibride.
Insomma, “investire nella sicurezza e nella difesa non è un’opzione in un mondo in cui le autocrazie prendono il sopravvento, il diritto internazionale purtroppo non è così forte come lo era fino a pochi anni fa e il multilateralismo è in declino”, ha sottolineato De Matteis. Il funzionario ha anche evidenziato un’altra sfida: comunicare ai cittadini perché si parla di investire in difesa cifre grosse come il 5% del Pil – una richiesta di cui si discuterà al prossimo vertice dell’Alleanza, a fine giugno a L’Aja – quando solo pochi mesi fa il 2% sembra già un miraggio (e per molti Paesi lo è).
Dialogo centrale nell’azione della Nato
Alessandro Minuto-Rizzo, presidente della Nato Defense College Foundation introducendo ieri i lavori ha ha parlato di dialogo : “È un fattore decisivo per prevenire le crisi”. L’obiettivo è quello di “promuovere partenariati basati su alcuni principi comuni con lo scopo di proiettare stabilità a 360 gradi”, in modo da “rafforzare un ordine internazionale pacifico e basato su regole”.
E “anche se la Nato non è qui un attore primario, in generale è il più importante fornitore di sicurezza a 360 gradi esistente e conta 40 nazioni come partner oltre ai membri dell’alleanza”.
“La promozione di strumenti di soft security è di primaria rilevanza in un contesto diversificato come quello che stiamo vivendo oggi”, ha continuato Minuto-Rizzo, elencando come priorità le rotte commerciali sicure, le catene di approvvigionamento stabili, le infrastrutture resilienti e la libertà di navigazione.
La sicurezza è anche ‘soft’
L’importanza di non sottovalutare la soft security, oltre a quella ‘hard’, è venuto anche da Amaia Sánchez Cacicedo, ricercatrice senior associata non residente dell’Asia Program presso l’Institut Montaigne di Madrid. Cambiamento climatico, disastri, salute, stabilità finanziaria: in tutti questi casi la ‘sicurezza morbida’ è “un importante punto d’ingresso per la cooperazione”.
Gabriele Abbondanza, docente di relazioni internazionali e sicurezza all’Universidad Complutense de Madrid, ha proposto di “creare un centro eccellenza contro attacchi ibridi nella regione”, sulla falsariga del Centro europeo di Helsinki, perché “per contrastare le minacce ibride sono necessarie “risposte ibride”, non solo la sicurezza militare”. Candidato ideale, l’Australia, “data la sua cooperazione con la Nato, la sua advocacy per l’Indo-Pacifico e le sue capacità di difesa.
È anche fondamentale, ha concluso Abbondanza, “aumentare l’alfabetizzazione sulla guerra ibrida (cyber attacchi, fake news, AI) e le capacità delle istituzioni”.
Come cooperare per essere indipendenti?
Dunque le partnership a 360 gradi con i Paesi dell’Indo-Pacifico sono sempre più importanti. Proprio stanotte l’Ue e l’Australia hanno annunciato l’avvio di negoziati per un Partenariato per la sicurezza e la difesa e si sono impegnati a promuovere i negoziati sul libero scambio. La firma non è un caso: l’Unione sta cercando da tempo di diversificare i propri orizzonti commerciali e strategici, una necessità velocizzata dalla guerra dei dazi voluta da Trump. Negli ultimi mesi firme analoghe sono arrivate con l’India e col Sudafrica.
Come ha sottolineato Giulia Tercovich, vice direttrice del Centre for Security, Diplomacy and Strategy di Bruxelles, ai microfoni di Giorgio Rutelli, vice direttore di Adnkronos, “l’Ue ha capito che deve fare partnership non solo commerciali ed economiche ma anche strategiche”.
Tuttavia, ha precisato l’esperta, “la sfida è allargare le partnership a Paesi con cui non necessariamente condividiamo tutti i valori ma con cui è importante relazionarsi nel nuovo contesto di competizione tra grandi potenze, Usa e Cina, nel quale l’Europa e l’Indo-Pacifico stanno cercando di ricavarsi un proprio spazio e una propria autonomia”.
Ci sono tuttavia degli ostacoli, in primis quello rilevato da Arha, e cioè che “l’idea di sicurezza collettiva scatena quasi una reazione allergica nella regione indopacifica”, perché si pensa che “in qualche modo smorza la mia autonomia strategica”: in India è una convinzione molto diffusa. Non è di questa opinione Arha, per il quale ”le alleanze in realtà rafforzano la tua autonomia strategica, non la degradano. È la Cina che degrada o limita l’autonomia strategica dell’India. È la Russia che lo fa alla Cina, Stessa cosa per l’Europa”.
Quale modello di partnership? Fondamentale un approccio ‘sartoriale’
Occorre dunque riflettere su quale sia il migliore modello di partnership, ha segnalato poi Di Martino spiegando che ci sono due opzioni: il modello positivo, che genera valore aggiunto indipendentemente da fattori esterni, e quello negativo, in opposizione a un fattore esterno specifico. Considerando che il contesto dell’Indo-Pacifico è privo di “una visione di sicurezza condivisa”, e caratterizzato da “un mosaico di alleanze bilaterali, coalizioni e raggruppamenti regionali spesso incoerenti”.
Il “modello cinese” si è concentrato su partnership positive, che tuttavia non hanno mantenuto le promesse, mentre il modello occidentale è stato prevalentemente negativo (difensivo). Per Di Martino è necessario aggiungere un lato positivo quest’ultimo modello, e il progetto della Nato con l’IP4 dimostra che è possibile farlo. Ma occorre “parlare con coloro che sono al di fuori dell’attuale partenariato: abbiamo bisogno di tornare al dialogo”.
Che le partnership nell’area si stiano “consolidando e costruendo, in particolare con IP4”, lo ha confermato Romussi, che ha illustrato tre direttrici della cooperazione: supporto all’Ucraina, “fondamentale”, i programmi scientifici per la peace e la sicurezza, “che nel 2024 hanno avuto un picco e ci si aspetta altrettanto quest’anno”, miglioramento della sicurezza delle comunicazioni.
Il punto chiave, ha sottolineato il funzionario, è che l’approccio verso i quattro Paesi è ‘cucito ad hoc’: “Ognuno ha un programma su misura”, pur nell’ambito di standard comuni. Inoltre, “le partnership sono dinamiche e si espandono a nuove attività, rendendo la risposta degli alleati e dei Paesi dell’Indo-Pacifico alle sfide sulla sicurezza più efficace”. “Siamo più sicuri se lavoriamo insieme”, ha affermato.
Le minacce sono molte: “La Russia prosegue la guerra in Ucraina e non ha rinunciato alle sue ambizioni a rimodellare la sicurezza europea; Corea del Nord e Mosca aumentano la loro cooperazione con conseguenze potenzialmente pericolose; la Cina rafforza le relazioni con Putin, aumenta le sue capacità militari, comprese quelle nucleari, e punta a controllare supply chain, infrastrutture critiche e tecnologie chiave”. Mentre cerchiamo di rintuzzare queste azioni, ha spiegato Romussi, “cerchiamo anche di mantenere un dialogo costruttivo con Pechino sulla trasparenza militare”.
L’importanza di Taiwan
Durante la conferenza si è parlato anche di Taiwan, ormai un attore geopolitico della massima importanza. Il perché lo ha spiegato Christina Lin, ricercatrice senior presso il Nato Defense College: innanzitutto per la sua “posizione geostrategica – vitale per il Giappone ma anche per gli Stati Uniti come barriera per scoraggiare le attività militari della Cina. Naturalmente Pechino vede questo come una strategia di accerchiamento da parte degli Stati Uniti e dei suoi alleati -, per il suo quasi monopolio nella produzione di chip avanzati (92% della fornitura globale) e per i suoi valori democratici condivisi“.
Ma Il Dragone considera l’isola una provincia ribella da annettere, una minaccia sempre presente e concreta nel breve periodo, “entro il 2026” secondo Rajendra Abhyankar, ex ambasciatore e visiting professor presso la School of Public and Environmental Affairs dell’Indiana University, o al massimo entro il 2027, secondo Mihoko Matsubara, capo Cybersecurity Strategist della NT Corporation a Tokyo.
Già oggi comunque l’isola subisce attacchi ibridi, ad esempio il frequente taglio di cavi sottomarini (che danneggia anche il Giappone). “È fondamentale che i Paesi Indo-Pacifici ed europei collaborino e condividano sulle minacce cyber da Cina, Corea del Nord e Russia”, ha sostenuto Matsubara, suggerendo anche che Taiwan diventi un ‘Enhanced Opportunities Partner’ con l’organizzazione scientifica e tecnologica della Nato (STO – Science and Technology Organization) come già altri Paesi dell’area.
“Il nemico non gioca in modo pulito”
Joanna Siekiera, professoressa assistente presso la facoltà di Legge – Studi di Guerra all’università di Varsavia e ricercatrice presso la Indo-Pacific Security Initiative dell’Atlantic Council a Varsavia, ha portato il focus sulla cosiddetta ‘lawfare’, una tecnica ibrida in cui si usa il diritto internazionale alla stregua di un’arma per portare avanti un’agenda militare e politica.
Il giudizio dell’esperta è netto: non siamo assolutamente pronti a fronteggiare attacchi simili. Siekiera ha citato come esempi Russia e Cina, che “hanno “perfezionato la manipolazione del sistema e delle istituzioni del diritto internazionale”. La prima relativamente all’Ucraina, la seconda nel caso di Hong Kong. Pechino inoltre sta creando una propria rete di organizzazioni internazionali, come la Shangai Cooperation Organization, per mettere in piedi un sistema parallelo di organizzazione internazionale.
“Stiamo andando in una zona molto pericolosa dove osserviamo solo ciò che sta accadendo, ma non lo stiamo impedendo”, ha detto l’esperta. “I nostri nemici non giocano in modo pulito”, e il primo passo è prendere consapevolezza di questo e del fatto che siamo “indietro, non sappiamo come reagire”, perché “la Nato usa il diritto solo come scudo e non ancora come arma”.
La Nato cambierà nome?
Alla fine la Nato dovrà cambiare nome? La richiesta è arrivata, in modo un po’ divertito ma serio, da Gun Hwa Kim, ministro dell’ambasciata della Corea del Sud in Italia. In chiusura della Conferenza, ha spiegato: “I nomi determinano l’identità”, perciò, “se la Nato si espande all’Indo-Pacifico, avete in mente di cambiare nome“?
Una domanda che fa riflettere proprio sull’identità futura dell’Alleanza, ora che gli Usa minacciano di uscirne e si allontanano sempre più dall’Europa. Come si sente molto dire in questo periodo, e come ha sottolineato Deborah Bergamini, membro della Commissione Affari Esteri della Camera, “un nuovo ordine globale si sta costruendo”, dunque “dobbiamo cambiare radicalmente il nostro modo di pensare e agire” per arrivare a “costruirlo e modellarlo insieme. Tuti siamo connessi, dovremo collaborare in modo diverso”.