L’Islanda presenterà un referendum per entrare in Ue entro il 2027

La proposta fa parte del programma del nuovo governo ma la popolazione è divisa
17 ore fa
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Bandiera Islanda Canva

L’Islanda potrebbe indire un referendum per entrare nell’Unione europea entro il 2027. Lo prevede il programma del nuovo governo islandese che si è insediato sabato 21 dicembre e sarà guidato dalla leader dei Socialdemocratici Kristrún Frostadóttir, che all’età di 36 anni diventa la più giovane guida del governo nella storia del Paese.

La proposta di referendum inserita nel programma dà concretezza a un’ipotesi di cui puntualmente si torna a parlare in Islanda. Il nuovo governo di centrosinistra prevede anche l’istituzione di una commissione di esperti indipendenti per valutare i vantaggi e gli svantaggi relativi all’uso della corona islandese e capire se adottare o meno l’euro.

Islanda in Ue?

Il nuovo governo, votato con elezioni anticipate, sarà guidato da Kristrún Frostadóttir ed è il risultato di un’alleanza di tre partiti: i Socialdemocratici, che alle elezioni avevano ottenuto il maggior numero di preferenze (20,8%); i Riformisti (15,8%), un partito liberale di centro, e il Partito del Popolo (13,8%), anch’esso di centro.

Nonostante la ripartizione dei voti, il referendum sull’ingresso in Ue era una proposta dei Riformisti, non particolarmente caldeggiata dai Socialdemocratici durante la campagna elettorale.

L’ambiguità politica riflette quella del Paese: secondo gli ultimi sondaggi (giugno 2024), solo il 54% degli islandesi, oggi, approverebbe l’ingresso nell’Unione. 2 islandesi su 3 (74%) si dichiara comunque d’accordo con l’idea di indire un referendum sul tema.

I precedenti

L’Islanda fece domanda per entrare nell’Unione Europea per la prima volta nel luglio del 2009, poco dopo la crisi finanziaria globale che causò una gravissima recessione nel Paese. Si trattava quasi di una scelta strumentale: il governo di centrosinistra riteneva che l’adozione dell’euro avrebbe potuto accelerare la ripresa e l’uscita dalla crisi. Nel 2010 cominciarono i negoziati formali tra Reykjavík e Bruxelles e nel maggio 2013 le parti avevano raggiunto un accordo su circa un terzo delle questioni. Il tutto in un contesto culturale molto diverso da quello attuale considerando che circa dieci anni fa solo il 25% degli islandesi era favorevole all’ingresso in Ue.

I negoziati vennero messi in pausa in seguito alle elezioni del 2013, che avevano portato all’insediamento di un nuovo governo formato da due partiti conservatori ed euroscettici. A marzo del 2015 il dialogo naufragò e l’Islanda annunciò di aver formalmente ritirato la sua domanda, perdendo lo status di Paese candidato.

Islanda, Ue e i tanti punti di contatto

Come altri Paesi, l’Islanda è già molto integrata con l’eurozona: fa parte dell’area Schengen (come Romania e Bulgaria), dell’Associazione europea di libero scambio e dell’accordo di Dublino che regola le richieste di asilo.

Proprio l’immigrazione potrebbe essere un punto cruciale per i nuovi colloqui con Bruxelles. Durante la campagna elettorale se n’è parlato molto più che in passato perché il numero di stranieri nel Paese è cresciuto notevolmente nel corso del tempo. Sul punto non sarà facile vincere la resistenza del Partito del Popolo, che fa parte della coalizione di governo. Attualmente, circa il 15,5% della popolazione islandese è costituito da cittadini stranieri contro l’11% registrato nel 2018. Il trend è in costante crescita: 12% nel 2019, 13% nel 2020, 14% nel 2021 e 15% lo scorso anno. La maggior parte degli immigrati proviene da paesi come la Polonia e la Lituania. 

Il ruolo dell’inflazione nel processo di adesione

Sull’altro piatto della bilancia c’è l’inflazione che in Norvegia rischia di essere fuori controllo. Non a caso la riduzione del costo della vita è un obiettivo condiviso dai tre partiti al governo. Secondo alcuni, entrare nell’Unione Europea costituirebbe un vantaggio sia per il commercio islandese, che per l’aspetto più prettamente finanziario perché l’adozione dell’euro garantirebbe una minore volatilità del cambio rispetto alla corona islandese anche grazie agli interventi regolatori della Bce.

Dopo aver superato il 10% nel 2023, oggi l’inflazione del Paese è di poco inferiore al 5% e rappresenta un importante spartiacque per il futuro dell’Islanda. L’articolo 140 del Tfue prevede che per entrare nell’area euro (che non corrisponde necessariamente ad essere membri Ue), il tasso d’inflazione non può essere maggiore di 1,5 punti percentuali rispetto al tasso dei tre Stati membri che hanno conseguito i migliori risultati.

Il Paese deve inoltre partecipare al meccanismo di cambio (Erm 2) per almeno due anni senza deviazioni di rilievo rispetto al tasso di cambio centrale dell’Erm 2 e senza svalutazioni del tasso di cambio centrale bilaterale della sua moneta nei confronti dell’euro nello stesso periodo. Lo scopo del meccanismo di cambio è testare il corretto funzionamento dell’economia di un Paese senza ricorrere a eccessive fluttuazioni monetarie.

Quando un Paese non appartenente alla zona euro entra nell’Erm 2, la sua valuta nazionale è vincolata all’euro a un tasso di cambio centrale concordato con gli Stati membri della zona euro, i paesi non appartenenti alla zona euro che già partecipano all’Erm 2 e la Bce, con la partecipazione della Commissione. In questo scenario è autorizzata una fluttuazione della valuta entro il limite standard del 15% al di sopra o al di sotto di questo tasso di cambio centrale concordato.

Dal 2018, infine, per aderire al meccanismo di cambio i Paesi devono anche aver avviato una stretta cooperazione con il meccanismo di vigilanza unico della Banca centrale europea e aver attuato specifici impegni politici.

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