È possibile replicare l’intelligenza umana sviluppando un’intelligenza artificiale “forte”? È il caso di farlo – e se sì, come? Come sottolinea Marcello Restelli, professore al dipartimento di Elettronica, Informazione e Bioingegneria del Politecnico di Milano, cento esperti darebbero cento risposte diverse. Lui si è fatto la sua idea a riguardo e per AdnKronos ha tracciato una strada, nella consapevolezza che la rivoluzione IA va sfruttata e alimentata, ma anche imbrigliata.
La strada
Parlando ai margini della Fall Conference 2024 di Assiom Forex, il professore è partito dal come arrivare all’IA forte. Lui concorda con la visione di Jürgen Schmidhuber, luminare nel campo dell’IA che individua una componente importante della soluzione nel reinforcement learning (apprendimento per rinforzo). È la disciplina di cui si occupa Restelli, e la descrive come un “tassello fondamentale” per raggiungere un’intelligenza simile a quella umana. La tecnica assomiglia al processo di apprendimento umano – quello che ci permette di prendere decisioni sulla base della nostra esperienza.
L’ultimo Nobel per la chimica (assegnato a uno dei padri dell’AI, Demis Hassabis) testimonia l’effetto dirompente di una macchina in grado di affinare un intelletto specifico. Sono molti i settori potenziali (è indicativo il fatto che Restelli abbia parlato di reinforcement learning a una conferenza finanziaria). C’è grande incertezza sul quando si arriverò a un’IA forte: per alcuni esperti sarà pronta dopodomani, per altri tra un secolo, altri ancora pensano sia impossibile, spiega il professore, prima di lanciare interrogativo: addirittura ha senso per l’umanità raggiungere questo obiettivo, o possiamo accontentarci di una serie di IA “deboli”?
IA chiama Europa
Il ritardo europeo nella corsa globale all’innovazione e la mancanza di competitività sono temi roventi a Bruxelles. E dire che non mancano i talenti, sottolinea il professore del Politecnico: “negli Stati Uniti i laboratori di ricerca e le grandi aziende sono pieni di ricercatori europei, ma il nostro continente non riesce a trattenere i propri talenti”. Adesso vediamo il fenomeno nella forma delle Big Tech statunitensi e dei loro prodotti innovativi come i nuovi chatbot; ma l’assenza di equivalenti europei si deve agli investimenti coordinati nelle tecnologie di frontiera.
La cifra che gira – gli Usa investono circa 50 volte in più rispetto all’Ue – è probabilmente sottostimata, rimarca Restelli. E sono proprio le aziende come Google e Facebook, nate vent’anni fa, a fungere da accentratori e grandi finanziatori della ricerca di base. Oggi beneficiamo tutti dei risultati. Il problema è che questa spinta accademica, da pubblica che era, sta diventando sempre più privata e for-profit. Ci sono realtà a Silicon Valley che sono comparabili a intere nazioni a livello di capitale, ricorda il professore, e il rischio è che le risorse “si accentrino in pochissime entità, quelle che governano la tecnologia e che hanno i modelli migliori”.
L’urgenza di finanziare
In questo scenario gli effetti sulla ricerca e sull’innovazione europee sarebbero distruttivi. C’è dunque un tema politico oltre a quello economico: motivo per cui sarebbe opportuno che il controllo della tecnologia fosse in mano ai governi invece che ai privati, secondo Restelli. Un controllo statale “neutrale”, possibilmente sovranazionale, da bilanciare con la necessità di innovare: equilibrio complesso, ma nel mentre serve che i governi Ue smettano di muoversi in ordine sparso e aumentino drasticamente i finanziamenti in innovazione.
L’Ue sconta un altro grande svantaggio: la mancanza del tessuto di venture capital paragonabile a quello statunitense, “quindi investitori che abbiano il coraggio di investire a rischio”. In parallelo tassazioni e vincoli legislativi appesantiscono le start-up europee, continua il professore: servirebbe facilitare la loro crescita perché possano poi diventare delle realtà grosse, degli unicorni, aziende valutate oltre il miliardo.
Dati e supercalcolo
Sull’IA l’Europa può ripartire dall’accesso ai dati, spiega Restelli, sottolineando che sono un “vantaggio competitivo” non indifferente. I vincoli europei dati dalla regolamentazione per la privacy (il Gdpr) creano “molte difficoltà” alla ricerca europea, soprattutto in ambienti sensibili come la salute. È difficile far uscire informazioni dagli ospedali, per esempio, sebbene la collettività “beneficerebbe enormemente dall’aver accesso a questo patrimonio di dati” – previa, naturalmente, la tutela dei dati personali.
Come evitare gli stessi errori commessi con l’IA in altri campi tecnologici di frontiera? La buona notizia è che sul fronte del supercalcolo (high performance computing) l’Ue e l’Italia si muovono abbastanza bene. “Abbiamo capito che è un asset fondamentale, c’è un buon livello di investimenti e anche grosse aziende che stanno investendo in centri di calcolo di grandi dimensioni: possiamo annoverare anche sul nostro territorio alcuni dei supercomputer più potenti al mondo”.
Per quanto riguarda il calcolo quantistico, invece, ci sono molte più incognite. Anzitutto non è ancora una realtà, sottolinea il professore: non ci sono ancora applicazioni realistiche, perché il costo di questi computer è ancora esorbitante e la performance decisamente instabile. A livello teorico “siamo molto avanti” ma al momento è ancora un investimento ad alto rischio. La scommessa, però, è ghiotta: il primo ad arrivare al calcolo quantistico renderebbe possibile l’utilizzo di alcuni algoritmi che esistono sulla carta ma sono troppo complessi per essere eseguiti su computer tradizionali: in breve, “aprirebbe un nuovo mondo”.