Al summit Ue-Cina per celebrare i cinquant’anni di relazioni diplomatiche, il clima era tutt’altro che festoso. Le aspettative erano basse, i nodi da sciogliere molteplici, e come previsto l’unico risultato concreto è stato un comunicato congiunto sulla cooperazione climatica. I presidenti di Commissione e Consiglio ue, Ursula von der Leyen e Antonio Costa, hanno chiesto a Pechino di lavorare su squilibrio commerciale e apertura di mercato, esortandola anche a utilizzare la sua influenza in sede Onu per fermare la guerra d’aggressione russa in Ucraina. Dal canto suo, il presidente cinese Xi Jinping si è limitato a ribadire l’importanza di rafforzare la fiducia reciproca e approfondire la cooperazione economica; sulle testate internazionali del Partito non si fa menzione degli altri temi.
La lista di irritanti nel rapporto è lunga, va dai controlli cinesi sulle esportazioni dei materiali critici (Bruxelles ha ottenuto un miglioramento del sistema per evitare carenze di flussi essenziali per le proprie fabbriche) ai dazi anti-dumping europei sulle auto elettriche cinesi, viste dalla Cina come una misura protezionista a cui rispondere con dazi ritorsivi. Più in generale, l’Ue è preoccupata per le distorsioni di mercato create dalla crescente sovrapproduzione cinese. Il problema è evidenziato dallo stesso Xi quando parla di “involuzione”, per cui i sussidi statali vanno a concentrarsi solo in certi settori, creando un problema se l’eccesso di produzione non viene assorbita dai consumatori, e la leadership del Partito lamenta il fatto che BYD, automaker leader di mercato, stia abbassando troppo i prezzi.
Tra negoziati e public relations
Pur senza dirlo esplicitamente, “Pechino riconosce che molti dei problemi evidenziati dall’Ue negli ultimi anni siano reali”. A parlare è Francesca Ghiretti, direttrice della China Initiative dell’importante istituto di ricerca Rand Europe, durante un’intervista con Eurofocus. “Non voglio dare l’impressione che questo riconoscimento sia il risultato degli scambi con l’Ue: è molto più probabile che sia un riconoscimento interno”, una comprensione del fatto che molti dei problemi economici generati da queste dinamiche si materializzeranno in futuro. Futuro che si avvicina in fretta, per cui per Pechino vanno presi provvedimenti, sottolinea l’esperta.
Tuttavia, il dialogo Ue-Cina opera su più piani, e quello della comunicazione rimane fondamentale per Pechino. “A livello di contenuto ci sarebbero dei punti d’incontro, ma a livello di reputazione, a livello di narrazione, a livello di segnali è diverso“, prosegue Ghiretti, puntualizzando che Pechino (o meglio, il Partito) non si può permettere di ammettere che le cause per i dazi anti-distorsioni imposti dall’Ue sono ragionevoli, e quindi passa al “contrattacco” con un’indagine antidumping sul brandy, prodotto la cui importazione non rappresenta certo una minaccia strutturale per l’economia cinese. Questa dinamica vale anche per il negoziato Ue-Cina, dove “la reputazione è ben più importante dei contenuti”.
La gravità degli Usa…
Il summit Ue-Cina si è svolto sullo sfondo di un mondo sconvolto dal ritorno di Trump alla Casa Bianca e del profondo ripensamento della politica estera degli Stati Uniti. Del resto, i controlli alle esportazioni sui materiali critici erano una risposta a quelli Usa sulle componenti ad alta tecnologia (su cui Trump ha fatto marcia indietro). Ghiretti ipotizza che l’estensione del meccanismo all’Ue non sia né solo uno stratagemma cinese per aumentare il proprio potere negoziale, né un “incidente” di una potenza che sta ancora imparando a usare le leve geopolitiche a sua disposizione. “La risposta non ce l’abbiamo, probabilmente la verità sta un pochino nel mezzo”, riflette.
A ogni modo, è evidente che la Cina non si sia preoccupata eccessivamente di non irritare l’Ue. Anzi, lo stesso summit ha dato indicazioni del sentimento cinese verso Bruxelles: sarebbe dovuto durare due giorni e includere una visita nella città industriale di Hefei, ma è stato tagliato corto, e la presenza di Xi è stata confermata solo all’ultimo. Un netto cambio di passo rispetto ai primi mesi del 2025, quando Pechino e Bruxelles si lanciavano segnali di avvicinamento reciproco in ottica di controbilanciare l’impatto della presidenza Trump.
Da allora Usa e Cina hanno innescato una breve ma brutale guerra dei dazi, per poi allentare la tensione, mentre l’Ue è ancora alle prese con i negoziati. Dunque Pechino si sente di essere in una in una posizione di forza rispetto a Bruxelles, che non può permettersi di aprire due grossi fronti contro Cina e Usa contemporaneamente, spiega Ghiretti; di conseguenza, la Cina “è meno incline a fare concessioni o a raggiungere punti d’incontro con l’Ue”.
… e la frammentazione europea
La postura europea tradisce una percezione di debolezza strutturale, la stessa che risalta quando si osservano le mosse di Bruxelles sullo scacchiere dominato da Washington e Pechino. “Purtroppo l’Ue è marginalizzata” nonostante disponga di un “enorme potere contrattuale e negoziale, che però è incapace di utilizzare“. La verità, continua Ghiretti, “è che nel contesto attuale gli Stati Uniti e la Cina guidano le dinamiche e l’Ue cerca sostanzialmente di risolvere le crisi che si presentano di volta in volta. Quindi negli ultimi mesi comunque è stata in modalità risoluzione crisi, invece che in modalità pianificazione e poi implementazione”.
L’esperta di Rand riconduce la dinamica alle discrepanze tra le visioni dei governi politici dei Ventisette Stati membri, che si manifesta in maniera particolarmente evidente sul campo delle tecnologie verdi, che al pari degli altri è campo di battaglia economico, visto il rischio dipendenza che le importazioni cinesi rappresentano per l’Ue. Se da un lato Bruxelles sta arginando il flusso di auto elettriche cinesi, dall’altro ci sono Paesi come l’Ungheria che si mettono in casa fabbriche di Byd, aziende cinesi sussidiarie e sussidiate dallo Stato e a pochissimo valore aggiunto, che non portano saper fare tecnologico e non impiegano un numero apprezzabile di lavoratori europei, praticamente minimizzando il ruolo europeo nella catena del valore, spiega l’esperta.
Il rischio economico
Ghiretti ricorda la scomparsa dei produttori europei di pannelli solari come rischio materiale di ciò che potrebbe accadere a una serie di industrie europee. “Adesso ovviamente la produzione globale di pannelli solari è cinese”, Pechino domina nel campo di auto elettriche e alcuni tipi di batterie, e “stiamo vedendo anche una presa di mercato sempre maggiore nell’eolico“, avverte Ghiretti. C’è anche la dimensione della sicurezza informatica, “perché tutti questi prodotti sono connessi, quindi raccolgono e trasmettono dati”, e una serie di studi confermano la scarsa protezione in materia di cybersicurezza oltre al rischio di appropriazione di dati da parte della Cina, sottolinea l’esperta.
Se è vero che negli ultimi anni l’Ue ha sviluppato delle strategie di sicurezza economica, come la revisione degli investimenti diretti dall’estero, anche nell’ottica di andare a incidere sui progetti più delicati se mettono in pericolo l’interesse economico europeo, è anche vero che difficilmente queste idee si tradurranno in politiche concrete, spiega Ghiretti: manca la volontà da parte degli Stati membri di implementare misure del genere, a molti va bene lo status quo, “e il risultato è che ci troviamo dove ci troviamo”.
Soluzione joint venture?
C’è chi ha ventilato l’adozione di una storica strategia cinese – forzare le aziende europee a creare joint venture e trasferire saper fare tecnologico con realtà cinesi per guadagnare l’accesso al mercato – per far recuperare terreno alle realtà del Vecchio continente. È successo in Spagna con la joint venture tra Stellantis e il produttore di batterie Catl. Ghiretti ci vede due problemi. Primo, essendo questa una strategia cinese, le aziende cinesi “sono profondamente consapevoli” delle possibili conseguenze a lungo termine, e alcune “non hanno reagito positivamente” all’inserimento di clausole per favorire il trasferimento di tecnologia. Secondo, a livello europeo si registra la solita reticenza a creare legislazione in tal senso. Anche perché, del resto, “non esiste una strategia coerente paneuropea riguardo al gestire la competizione cinese“.
L’Ue alla prova della sicurezza (di sé)
Bruxelles, stando a Ghiretti, dovrebbe farsi più coraggio sulla scena internazionale, scrollandosi di dosso la paura che far arrabbiare la Cina porti con sé conseguenze disastrose, visto che la storia recente dimostra che così non è stato, e decidendo di far valere il proprio peso e la propria influenza, elementi di cui dispone ma che non utilizza appieno. “Può agire in maniera molto più matura e calcolata nei fronti della Cina. Alcuni passi sono stati fatti in quella direzione”; il problema, spesso, è la mancanza di appetito politico, chiosa.