Cosa accadrebbe se Giorgia Meloni diventasse presidente della Commissione europea, Jordan Bardella presidente della Repubblica francese, Nigel Farage sbarcasse a Downing Street e Vladimir Putin fosse reintegrato nel G8? Non è un esercizio di fantapolitica, ma uno degli scenari descritti nel nuovo studio dell’European Council on Foreign Relations, firmato da Jeremy Cliffe, Teresa Coratella, Camille Lons e Arturo Varvelli.
Il report, pubblicato il 12 giugno, immagina l’evoluzione della politica estera europea in uno scenario in cui i partiti “challenger” – sigla con cui Ecfr indica le forze populiste, sovraniste o radicali che si collocano fuori dal vecchio mainstream – diventano protagonisti assoluti delle scelte strategiche del continente.
I nuovi attori della scena europea
Secondo il documento, i “challenger” non sono più un’eccezione marginale ma una componente strutturale del nuovo equilibrio europeo. Alcuni sono già al governo, altri sostengono esecutivi o dominano i sondaggi in Paesi chiave come Germania, Francia, Italia e Polonia. E mentre al Parlamento europeo gruppi come i Patrioti e i Conservatori e riformisti europei (Ecr) sono sempre più influenti, la linea che separa outsider e establishment si fa ogni giorno più sfocata.
Nonostante le differenze ideologiche e geografiche, questi partiti condividono alcuni tratti distintivi: un marcato scetticismo verso Nato e Ue, una visione multipolare favorevole a Mosca e Pechino, un approccio restrittivo all’immigrazione e una retorica sovranista in materia economica, commerciale e ambientale. In molti casi, si oppongono alle politiche climatiche dell’Ue, considerandole un attacco allo stile di vita e alla produttività nazionale.
G8 a Dresda: cinque futuri possibili
Per dare corpo a queste trasformazioni, Ecfr costruisce cinque scenari ambientati nell’agosto del 2029, in occasione di un G8 organizzato a Dresda. Tutto ruota attorno alla foto ufficiale: al centro c’è Putin, tornato al tavolo dei grandi su pressione del presidente americano J.D. Vance, erede diretto di Donald Trump. Accanto a lui siedono i nuovi leader dell’Europa: Bardella, Meloni, Merz (a capo di un governo di minoranza con l’appoggio di Afd), Farage. Gli ultimi rappresentanti del centro liberal – il canadese Mark Carney e il giapponese Ishiba – restano ai margini.
Nel primo scenario, l’Europa si polarizza attorno all’asse trumpiano. Gli Stati Uniti premiano i governi amici con esenzioni dai dazi, alimentano una rete mediatica pan-europea con contenuti sovranisti e finanziano campagne di influenza digitale. Meloni e Orbán diventano intermediari privilegiati, mentre i partiti tradizionali arrancano nel tentativo di contenere la marea.
Nel secondo scenario, a prevalere è la confusion: la crisi di Taiwan, una guerra imminente tra Israele ed Egitto, flussi migratori dal Medio Oriente e dall’Africa destabilizzano le agende europee. I governi si dividono, la cooperazione implode. Le scelte sulla sicurezza, le alleanze e le migrazioni vengono prese sulla base di convenienze nazionali. L’Europa si trasforma in un arcipelago di interessi contrapposti.
Il terzo scenario immagina un’Europa identitaria e sovrana, guidata dal giovane presidente francese Jordan Bardella. L’agenda è dichiaratamente civilizational, per citare l’articolo sulla newsletter del Dipartimento di Stato che si lamenta dell’Europa contemporanea: un’Europa giudeo-cristiana, indipendente da Washington e Mosca, chiusa verso l’esterno, compatta all’interno. Bardella e Meloni, in conferenza stampa con il nuovo presidente ucraino Zaluzhny, annunciano l’avvio di una nuova “autarchia europea”, con dazi massicci, investimenti nell’energia interna e una ridefinizione delle relazioni internazionali. È l’Europa dei popoli, ma anche delle frontiere.
Nel quarto scenario, il grande burattinaio è Viktor Orbán. Nonostante non guidi un Paese centrale né occupi cariche formali, il leader ungherese detta le regole del gioco. La politica estera europea diventa transazionale: accordi con Trump, relazioni speciali con Pechino, legittimazione diplomatica per Mosca. Il pragmatismo regna, ma al prezzo di ogni coerenza strategica. Persino la Nato si ritira dai Paesi baltici, e il patto con Putin riconosce de facto l’occupazione russa dell’Ucraina.
Infine, un’ultima ipotesi: il “contraccolpo moderato”. Dopo anni di avanzata populista, il centro si riorganizza. In Francia Bardella vince di misura, ma perde consensi. In Italia nasce un’alleanza inedita tra il Movimento 5 stelle e la sinistra. Draghi torna in scena con una nuova strategia per il mercato unico. Von der Leyen rilancia la difesa europea. L’integrazione politica fa un salto di qualità, mentre anche alcuni leader populisti si convertono gradualmente al pragmatismo sistemico.
La politica estera europea nel mondo che cambia
Il report di Ecfr non si limita a ipotizzare futuri alternativi. Lancia anche un monito: la politica estera dell’Ue è destinata a vivere un’epoca di forti turbolenze. I “challenger” non sono necessariamente un pericolo per la democrazia, ma pongono domande nuove e radicali su sovranità, potere, alleanze, sicurezza e globalizzazione. In alcuni casi, costringono i partiti tradizionali a ridefinirsi. In altri, li marginalizzano del tutto.
In un mondo in cui gli Stati Uniti si fanno sempre più selettivi nei loro impegni globali, la Cina cerca di affermare il proprio modello e la Russia non ha mai davvero lasciato il campo, l’Europa dovrà scegliere: inseguire il consenso interno al prezzo della coerenza esterna, oppure costruire nuove coalizioni che le consentano di restare un attore geopolitico credibile.