Dazi Usa-Ue, manca sempre meno: perché il passaggio tra Šefčovič e il Coreper II è decisivo

Conto alla rovescia sui dazi
7 ore fa
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Šefčovič Maros Afp
Maros Šefčovič, commissario europeo al Commercio (Afp)

La soglia del 9 luglio si avvicina, e con essa l’ombra di nuovi, pesantissimi dazi doganali statunitensi sulle esportazioni europee. Mentre il presidente Donald Trump continua a manovrare da Washington il braccio di ferro con Bruxelles, nella capitale europea è in corso un passaggio decisivo tra il commissario al Commercio Maroš Šefčovič e il Coreper II, il comitato che riunisce i rappresentanti permanenti dei governi degli Stati membri, sugli sviluppi dei colloqui portati avanti negli ultimi giorni con la controparte americana. Sul tavolo, la possibilità di evitare una rottura commerciale e chiudere un accordo di principio in extremis, prima che entri in vigore la raffica di tariffe al 50% annunciata dalla Casa Bianca su settori chiave come acciaio, componentistica auto, semiconduttori.

Ma l’Unione è tutt’altro che compatta. Tra chi spinge per un compromesso rapido per salvaguardare l’export e chi insiste su un riequilibrio strutturale, il margine di manovra della Commissione resta limitato. La proposta americana – una tariffa fissa del 10% su tutte le merci europee – è considerata da alcuni una via d’uscita praticabile, purché accompagnata da esenzioni per comparti sensibili. Ma altri, soprattutto Parigi, temono che un’intesa non bilanciata possa diventare permanente, cristallizzando un vantaggio competitivo unilaterale per Washington. In questo quadro frammentato, la missione di Šefčovič diventa un esercizio di equilibrismo diplomatico: evitare lo scontro frontale con gli Stati Uniti senza cedere su interessi fondamentali per l’industria europea.

Le trattative tra Bruxelles e Washington

Il negoziato in corso tra Unione europea e Stati Uniti è in una fase estremamente delicata. Nonostante i toni concilianti usati nelle comunicazioni ufficiali, la partita commerciale si gioca su margini sottili e interessi divergenti. Maroš Šefčovič, reduce da una settimana di lavoro a Washington, è chiamato a riferire agli ambasciatori dei 27 Stati membri i dettagli degli incontri con Jamieson Greer (USTR), il segretario al Commercio Howard Lutnick e il segretario al Tesoro Scott Bessent.

Sul piatto c’è la proposta americana di una tariffa al 10% su tutte le esportazioni europee, con possibili esenzioni settoriali su farmaceutica, alcolici, aerospazio e chip. L’obiettivo, almeno sulla carta, è costruire una “cornice stabile e ambiziosa” per le relazioni commerciali transatlantiche. Ma per Bruxelles si tratta di digerire una mediazione al ribasso: in cambio di un abbassamento dei dazi su acciaio, alluminio e auto (attualmente rispettivamente al 50% e 25%), l’Ue dovrebbe accettare nuove concessioni sulle questioni più sensibili per l’amministrazione Trump, a partire dalla regolazione dei mercati digitali e dagli acquisti energetici e militari.

Il nodo più spinoso resta infatti quello delle contropartite. La Casa Bianca chiede da tempo una maggiore apertura verso le Big Tech americane, oggi oggetto di indagini e sanzioni ai sensi dei regolamenti Digital Services Act e Digital Markets Act. Inoltre, Washington punta a un incremento delle esportazioni di gas naturale liquefatto e di armamenti, due settori dove Bruxelles potrebbe essere disposta a concedere qualcosa, ma solo con un mandato politico chiaro da parte del Consiglio. Ed è proprio su questo che si gioca oggi la vera partita diplomatica.

Un segnale di apertura, almeno sul piano del linguaggio diplomatico, è arrivato direttamente dal commissario europeo. In un post pubblicato al termine della missione a Washington, Šefčovič ha definito “produttiva” la settimana di lavoro nella capitale americana e ha parlato di “incontri positivi” con i rappresentanti dell’amministrazione Usa. “Il nostro obiettivo rimane invariato: un accordo commerciale transatlantico buono e ambizioso”, ha scritto su X, allegando una foto accanto ai suoi interlocutori statunitensi. Un messaggio calibrato, che riflette l’intenzione della Commissione di tenere aperto il canale del negoziato senza forzare toni o contenuti.

Gli equilibri interni all’Ue

La discussione al Coreper II sarà centrale non solo per fare il punto tecnico sulle trattative, ma anche per testare la tenuta politica dell’Unione. Dietro la formula dell’unità europea si nascondono, in realtà, profonde divergenze tra i principali Stati membri. Da un lato, Germania e Italia spingono per un’intesa rapida che metta al sicuro l’export manifatturiero, anche a costo di alcune concessioni su altri fronti. Dall’altro, Francia e Spagna ritengono prematuro accettare un’intesa con contorni ancora indefiniti e insistono per condizioni più favorevoli all’Europa.

La linea prevalente, almeno per ora, sembra quella del cancelliere tedesco Friedrich Merz: meglio un accordo imperfetto che una guerra commerciale a colpi di dazi generalizzati. Una posizione condivisa da Roma, fortemente esposta nei settori auto, alimentare e chimico-farmaceutico. Ma Parigi non ci sta: teme che la Commissione ceda troppo facilmente su dossier strategici come la digitalizzazione e la difesa comune. La Spagna, da parte sua, condivide i timori francesi e chiede maggiori garanzie su come saranno distribuiti i benefici e i costi dell’intesa.

In questo contesto, la riunione odierna del Coreper rappresenta anche un banco di prova per Ursula von der Leyen. La presidente della Commissione non ha in agenda missioni negli Stati Uniti, ma segue direttamente l’evoluzione del dossier. Da Aarhus, dove è intervenuta per il seminario di inizio semestre della Commissione, ha ribadito la disponibilità a un accordo negoziato, ma ha anche confermato che Bruxelles è pronta ad attivare contromisure qualora Washington decidesse di procedere unilateralmente.

Un accordo entro il 9 luglio?

La scadenza fissata da Donald Trump è ormai dietro l’angolo. Entro il 9 luglio, la Casa Bianca potrebbe firmare il decreto che introduce dazi generalizzati del 50% su numerosi prodotti europei, a meno che non si arrivi a un accordo di principio. La Commissione europea lavora con l’obiettivo dichiarato di scongiurare questa eventualità, ma i margini sono ridottissimi. I 90 giorni concessi da Trump a partire dal 9 aprile, quando aveva sospeso i dazi reciproci annunciati col “Liberation Day”, stanno per scadere.

L’opzione sul tavolo è quella di un’intesa quadro, non definitiva ma sufficientemente articolata da congelare le tariffe e permettere una prosecuzione dei colloqui nelle prossime settimane. “Puntiamo a un accordo di principio, è impossibile ultimare nei dettagli un’intesa in 90 giorni”, ha spiegato von der Leyen. La strategia è simile a quella adottata con il Regno Unito: chiudere il capitolo politico, rimandando le parti tecniche a tavoli successivi.

Ma Washington pretende un segnale tangibile, e qui entrano in gioco le concessioni europee. Secondo fonti diplomatiche, l’amministrazione americana ha chiesto impegni su almeno tre fronti: una moratoria sui procedimenti antitrust contro le Big Tech; una clausola sugli acquisti energetici che garantisca quote crescenti di gas naturale liquefatto statunitense nei prossimi cinque anni; un’intesa quadro per agevolare le esportazioni di sistemi d’arma made in Usa. L’Ue valuta, ma i 27 devono decidere rapidamente se accettare un compromesso ora o rischiare un’escalation da mercoledì prossimo.