La cifra finale è 15. Non 10, come sperava inizialmente Bruxelles, né 20 o 30, come minacciava Washington: 15%. È questa la tariffa che la gran parte delle esportazioni europee dovrà pagare per entrare nel mercato statunitense, secondo quanto stabilito dal nuovo accordo commerciale Ue-Usa, firmato a ridosso della scadenza fissata dalla Casa Bianca per il 1° agosto, dopo mesi di tensioni crescenti e un clima di negoziazione condizionato da minacce unilaterali. La firma è arrivata in Scozia, con Ursula von der Leyen e Donald Trump a ufficializzare un’intesa descritta come “storica” da entrambi, ma al netto delle dichiarazioni di rito, il compromesso si rivela oneroso per l’Unione e indica una posizione negoziale americana decisamente più aggressiva rispetto agli anni passati.
Come si è arrivati al 15%
Il nuovo sistema introduce un dazio uniforme al 15% “all-inclusive” per la stragrande maggioranza dei prodotti europei, con l’obiettivo dichiarato di garantire stabilità e accesso prevedibile al mercato statunitense. In pratica, viene rimosso il mosaico di tariffe settoriali in favore di un’aliquota unica. Per alcuni comparti – a partire dal settore automobilistico, attualmente soggetto a una tariffa del 27,5% – si tratta persino di un sollievo, ma per altri, come il farmaceutico e il meccanico, è un salto in avanti nei costi di accesso.
Bruxelles, da parte sua, ha accettato la linea americana per evitare una guerra commerciale che avrebbe potuto costare decine di miliardi di euro l’anno in dazi aggiuntivi. In gioco c’erano 93 miliardi di euro di contromisure preparate dalla Commissione, pronte a essere attivate in caso di escalation. Ma la spaccatura tra Stati membri ha impedito ogni reazione compatta: Francia e Spagna spingevano per la linea dura, mentre Germania e Italia chiedevano un’intesa rapida per tutelare l’industria manifatturiera e automobilistica.
Von der Leyen ha definito l’accordo “un tetto massimo chiaro” che blocca l’applicazione di ulteriori tariffe e dà “prevedibilità” alle imprese. Tuttavia, il 15% rappresenta un incremento di oltre tre volte rispetto alla media delle tariffe finora in vigore (4,8%) e segna una svolta nell’equilibrio delle relazioni transatlantiche. Il presidente Usa ha descritto il patto come “il più grande di tutti gli accordi”, elogiando la sua efficacia nel riequilibrare un rapporto commerciale che – a suo dire – vedeva un “surplus” europeo e un “deficit” americano. Il contenuto dell’accordo suggerisce invece un’imposizione di fatto, accettata da Bruxelles solo per evitare danni maggiori.
Chi vince e chi perde nella lista delle esenzioni
Tra le maglie strette dell’accordo emerge un piccolo spiraglio: il cosiddetto schema “zero-for-zero”, che prevede l’eliminazione reciproca delle tariffe su un numero selezionato di prodotti considerati strategici. Si tratta di un elenco ristretto ma significativo: aerei e componentistica aeronautica, apparecchiature per semiconduttori, materie prime critiche, alcune categorie di prodotti chimici e agricoli.
Per l’industria aeronautica europea, sotto pressione da anni per le tensioni commerciali legate ai sussidi Airbus-Boeing, la notizia rappresenta un segnale positivo. Lo stesso vale per i semiconduttori, settore nel quale l’Europa punta a recuperare competitività con il “Chips Act” comunitario. Von der Leyen ha confermato l’intenzione di “continuare a lavorare per aggiungere altri prodotti all’elenco”, ma al momento la lista resta ristretta.
Più problematico, invece, il trattamento riservato alla farmaceutica. Trump ha espressamente dichiarato che i prodotti farmaceutici devono essere “costruiti e prodotti negli Stati Uniti”. Alla fine, Bruxelles ha ottenuto un’inclusione sotto la soglia del 15%, ma con riserva: la Casa Bianca ha già aperto un’indagine formale sul settore, che potrebbe sfociare in tariffe mirate in futuro.
Il margine di manovra per ulteriori esclusioni è quindi limitato. Il motivo è semplice: la tariffa del 15% viene applicata in modo generalizzato, bloccando la possibilità di cumulo con altri dazi. Questo dovrebbe evitare aumenti futuri – almeno finché dura la vigenza dell’accordo – ma al contempo congela ogni possibilità di trattamento preferenziale al di fuori dello schema zero-per-zero.
Tra le grandi escluse dalle esenzioni figurano anche le bevande alcoliche, inclusi vino e superalcolici europei. Von der Leyen ha ammesso che “nessuna decisione è stata presa” in merito e che “la questione sarà affrontata nei prossimi giorni”. Una formula che rivela lo stallo politico dietro a questo dossier, particolarmente sensibile per produttori italiani, francesi e spagnoli.
Le vere monete di scambio di Bruxelles
Oltre alle tariffe, l’accordo Ue-Usa comprende un impegno strategico molto più rilevante per la Casa Bianca: la promessa europea di acquistare energia americana per un valore complessivo di 750 miliardi di dollari entro il 2028, ovvero 250 miliardi l’anno fino alla fine del mandato di Donald Trump. Si tratta di forniture di gas naturale liquefatto (gnl), petrolio e combustibili nucleari, che avranno il compito di rimpiazzare le fonti russe ancora presenti nel mix energetico dell’Unione.
Von der Leyen ha spiegato che “è positivo poter acquistare gnl più conveniente e migliore dagli Stati Uniti”, soprattutto in un momento in cui “troppo gas russo continua a rientrare dalla porta di servizio nell’Unione europea”. Ma l’impegno non è neutrale. Per l’industria europea, vincolarsi a fornitori americani potrebbe comportare un aumento dei costi rispetto ad altre fonti – a partire da quelle mediorientali – e limitare la flessibilità nei contratti a lungo termine.
In cambio, Bruxelles ha ottenuto una clausola che esclude temporaneamente l’energia dal sistema tariffario. Ma l’impatto geopolitico dell’accordo è rilevante. Trump ottiene un successo visibile: ridurre l’influenza energetica russa in Europa e garantire al contempo un enorme mercato di sbocco per l’industria americana. L’Europa, dal canto suo, accetta di subordinare parte della propria politica energetica a un accordo commerciale, in un contesto in cui l’autonomia strategica è uno degli obiettivi centrali dell’agenda comunitaria.
Il patto non tocca direttamente i dazi su acciaio e alluminio, che restano al 50% a livello globale, tranne che per il Regno Unito (25%). Tuttavia, le due parti si sono impegnate ad affrontare il problema dell’eccesso di capacità globale, in particolare cinese, con la creazione di un sistema di quote “storiche” per evitare dumping commerciale.
Cosa resta da negoziare
Il compromesso raggiunto a fine luglio è, nei fatti, un’intesa politica ma non ancora un accordo vincolante. Lo ha detto anche la presidente del Consiglio Giorgia Meloni: “Bisognerà studiare i dettagli dell’accordo, perché quello che è stato sottoscritto è un accordo di massima, non giuridicamente vincolante”. Il Parlamento europeo dovrà esprimersi sul testo, così come il Congresso americano, mentre il contenuto legale dovrà essere redatto nei prossimi mesi.
In parallelo, la giustizia federale statunitense si appresta a valutare un ricorso legale contro l’autorità presidenziale in materia di dazi. Se i giudici dovessero limitare i poteri di Trump nell’imporre tariffe per motivi di “emergenza nazionale”, l’intero impianto legale dell’accordo rischierebbe di vacillare.
Inoltre, restano da definire i capitoli più tecnici: barriere non tariffarie, regole di origine, certificazioni, standard di sicurezza. Von der Leyen ha parlato di una “cooperazione sulla sicurezza economica” ma non sono stati forniti dettagli concreti. L’accordo è stato chiuso in fretta, sotto la pressione della scadenza dell’1 agosto, e molte questioni sono rimaste sul tavolo.
Anche sul fronte interno europeo, le conseguenze saranno da monitorare. Alcuni settori – agricoltura, farmaceutica, meccanica – rischiano di vedere i propri margini ridotti, mentre altri potrebbero beneficiare del consolidamento delle regole. Il governo italiano ha già annunciato che valuterà l’attivazione di misure di sostegno nazionali ed europee per le filiere più esposte.
Se da un lato si è evitato lo scontro frontale, dall’altro l’Unione europea ha dovuto accettare condizioni che segnano un riequilibrio dei rapporti a vantaggio degli Stati Uniti. Il 15% diventa la nuova normalità per esportare Oltreoceano. E se questa soglia verrà considerata “sostenibile” nel medio termine dipenderà non tanto dalle dichiarazioni di principio, quanto dagli effetti reali sui bilanci delle imprese europee.