I dazi di Donald Trump stanno ridisegnando la mappa del commercio mondiale, ma di quanto? Una prima risposta arriva dai dati di aprile pubblicati dall’Us Census Bureau (l’Ufficio del censimento americano) che rivelano l’impatto devastante delle barriere commerciali imposte dal tycoon dopo il “Liberation Day” del 2 aprile. Dietro le percentuali, però, si nasconde una realtà più complessa, i numeri possono ingannare e il vero conto delle guerre commerciali deve ancora essere pagato.
Gli effetti sull’export europeo
L’Unione europea ha subito un colpo durissimo. Ad aprile, l’export verso gli Stati Uniti è crollato del 35% rispetto a marzo, ultimo mese prima dell’entrata in vigore dei dazi “reciproci”. Il tracollo ha colpito in modo particolare la Germania, già in recessione. L’export di prodotti tedeschi negli Stati Uniti hanno segnato il -16% rispetto a marzo e soprattutto -8,6% rispetto allo stesso mese del 2024.
La causa principale di questi numeri va trovata nel settore automobilistico per cui Trump, a differenza degli altri beni, ha mantenuto i dazi al 25% così come ha fatto per acciaio, alluminio e componenti per le auto. Una scelta disastrosa per la Germania, che già stava facendo i conti con la crisi del settore, pilastro dell’economia tedesca. Le difficoltà dell’automotive tedesca sono presto diventate un problema europeo, ulteriormente aggravato dalla politica protezionista di Trump. Non basta guardare i numeri dell’Us Census Bureau per capire quanto abbiano impatto i dazi del presidente americano sui singoli Paesi e sull’Ue. L’Italia, ad esempio, risente indirettamente del tracollo dell’export tedesco perché in Germania esporta componenti fondamentali nella filiera dell’automotive.
Gli effetti sull’Italia
Considerando solo le esportazioni negli States, il Belpaese ha sofferto i dazi di Trump circa un terzo rispetto alla media Ue: l’export italiano è calato del 10% ad aprile rispetto a marzo e del 4,4% rispetto ad aprile 2024. Non è poco, considerando che gli Stati Uniti rappresentano il secondo mercato estero per i prodotti italiani, proprio dopo la Germania.
Il crollo cinese
La Cina ha subito l’impatto più devastante. A gennaio, ultimo mese prima dei nuovi dazi bilaterali, gli Stati Uniti avevano importato dal Dragone beni per oltre 41 miliardi di dollari. Ad aprile la cifra è precipitata a soli 25 miliardi: un crollo del 39% rispetto al periodo precedente l’imposizione delle tariffe e del 20% rispetto all’aprile 2024.
La strategia del tycoon contro Pechino si è articolata in più fasi e sembrava essere arrivata a una (temporanea) soluzione dopo gli incontri di Ginevra dell’11 maggio. Nelle lande svizzere, Trump e Xi Jinping avevano pattuito una sospensione dei dazi reciproci per 90 giorni, facendo rifiatare i mercati e le speranza del commercio globale. Un termine evidentemente troppo lungo da rispettare: solo una settimana fa, Trump ha di nuovo attaccato Pechino accusandola di aver violato gli accordi e minacciando una nuova ondata di tariffe. Il caso sembrerebbe rientrato dopo la telefonata avvenuta ieri tra i due leader, che Trump ha definito un “colloquio molto positivo” e dovrebbe portare a un nuovo summit tra i due presidenti. La ondivaga strategia commerciale del presidente americano obbliga a usare il condizionale.
L’illusione dei numeri
Prima dicevamo che non basta vedere i dati dell’Us Census Bureau per capire l’impatto dei dazi sulle esportazioni europee. Non solo: leggendoli, bisogna anche evitare di cadere nell’inganno dei numeri comunicati dall’Ufficio del censimento americano. Il confronto tra aprile e marzo di quest’anno, infatti, è viziato dalla corsa all’import da parte delle aziende americane prima che scattassero i dazi. Nei primi tre mesi del 2025, con il ritorno di Trump alla Casa Bianca, il deficit commerciale degli Stati Uniti era aumentato del 69% con il resto del mondo e quasi del 100% con l’Unione europea.
Gli importatori americani hanno letteralmente fatto incetta di prodotti stranieri per riempire i magazzini prima dell’arrivo delle tariffe. L’Italia aveva beneficiato meno di questo effetto rispetto ad altri Paesi. Nel primo trimestre di quest’anno il deficit commerciale americano verso l’Italia era cresciuto “solo” del 18% Anche per questo la frenata dell’export italiano appare meno drammatica rispetto alla media Ue.
Il confronto più onesto è quello con lo stesso mese dell’anno precedente, che rivela un impatto negativo significativo, seppure molto meno rispetto al confronto marzo-aprile 2025: -8,6% per la Germania, -4,4% per l’Italia, -20% per la Cina. Il dato più interessante riguarda l’Ue: rispetto ad aprile 2024 i dati sull’export sono rimasti pressoché invariati.
Le previsioni per il futuro
I dazi di Trump rappresentano il più grande aumento fiscale dal 1993. Nel 2025, le tariffe imposte e programmate aumenteranno le entrate fiscali federali di 156,4 miliardi di dollari, pari allo 0,51% del Pil. Si tratta di un incremento superiore a quelli attuati sotto le presidenze di Barack Obama e George H.W. Bush.
Secondo le previsioni di taxfoundation.org, l’aliquota media effettiva dei dazi salirà al 12,4% dopo aver incorporato le risposte comportamentali, incluso il calo stimato delle importazioni di circa 560 miliardi di dollari (17%), raggiungendo il livello più alto dal 1941. Per le famiglie americane, i dazi si tradurranno in un aumento medio delle tasse di 1.183 dollari nel 2025 e 1.445 dollari nel 2026.
A livello globale, le prospettive non sono rosee. L’Ocse ha tagliato le stime di crescita globale, prevedendo un rallentamento dal 3,3% nel 2024 al 2,9% sia nel 2025 che nel 2026. Gli Stati Uniti saranno i più colpiti, con una crescita in calo dal 2,8% nel 2024 all’1,6% nel 2025 e all’1,5% nel 2026.
L’Istat prevede “un impatto negativo dei dazi sul commercio mondiale e sulle prospettive di crescita internazionali”. Per l’Italia, il Pil è atteso in crescita dello 0,6% nel 2025 e dello 0,8% nel 2026, con la domanda estera che fornirà un contributo negativo in entrambi gli anni.
Secondo Elon Musk “le tariffe causeranno recessione nella seconda metà del 2025”, anche se le sue parole vanno prese con le pinze dopo la fragorosa rottura con il presidente americano. L’ex capo del Doge (il Dipartimento dell’Efficienza Governativa che ha tagliato fondi a destra e a manca), ha criticato apertamente la politica economica della Casa Bianca sostenendo persino che il nome di Donald Trump fosse finito nei file di Epstein. Ma questa è un’altra storia.