L’Unione europea vuole raddoppiare i dazi sull’acciaio. La proposta della Commissione è arrivata mercoledì e prevede di imporre tariffe del 50% sulle importazioni di acciaio nel blocco, il doppio di quelli attuali, e di dimezzare le quote di importazione della lega in questione. L’obiettivo della scelta è duplice: sostenere l’industria siderurgica del blocco e difendersi dalle importazioni a basso costo, provenienti principalmente dall’Asia (Cina e India). Stavolta, insomma, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump non c’entra. Ma in realtà, come vedremo, c’entra comunque, perché la sterzata europea è strettamente legata all’accordo commerciale con gli Usa.
Il nuovo meccanismo per l’acciaio
L’attuale regime di salvaguardia prevede una quota di 33 milioni di tonnellate di importazioni senza tasse, esaurita la quale si applica una tariffa del 25%. Il sistema è in scadenza il 30 giugno 2026, occasione dunque per riformularlo. Secondo la previsione della Commissione, il nuovo meccanismo riduce del 47% la quota esente da dazi, fino a 18,3 milioni di tonnellate, e impone il 50% di tassa sul fuori quota.
Saranno coperte le importazioni da tutti i Paesi terzi, ad eccezione dei partner See (Spazio Economico Europeo, un’area che estende il mercato interno dell’Unione a Islanda, Liechtenstein e Norvegia. Rimane dunque escluso dall’esenzione il Regno Unito, grosso esportatore della lega). La proposta dell’esecutivo richiede infine che gli importatori certifichino dove l’acciaio è stato fuso e colato, per evitare che vengano aggirate le tariffe doganali.
Séjourné: “Questa è la reindustrializzazione dell’Europa”
Il commissario europeo per l’Industria, e vicepresidente esecutivo, Stéphane Séjourné, su X ha definito le nuove misure “la reindustrializzazione dell’Europa”.
Il commissario al Commercio Maroš Šefčovič, presentando il nuovo regime, ha sottolineato a sua volta l’importanza del settore, “essenziale per garantire l’autonomia strategica, comprese le nostre capacità in molti settori, come la difesa e l’automotive”.
Séjourné ha snocciolato i dati: “Il nostro mercato si trovava ad affrontare una sovraccapacità globale e concorrenti sovvenzionati che applicavano prezzi stracciati. Entro il 2024, 18mila posti di lavoro diretti saranno già andati persi nell’industria siderurgica europea: sono troppi, e bisogna porre fine a questa situazione”. “La posta in gioco è reale: 300mila posti di lavoro diretti – in 20 Paesi – e 2,5 milioni di posti di lavoro indiretti”, ha sottolineato ancora.
La sovracapacità cinese
E il problema che il nuovo meccanismo vuole arginare è proprio la sovracapacità (l’eccesso di produzione rispetto alla domanda di mercato) cinese nel settore siderurgico. Pechino è il maggiore produttore ed esportatore di acciaio al mondo e la sua superproduzione, ben oltre la domanda, ha gravi conseguenze sull’industria europea.
Šefčovič lo ha chiarito: “La crisi globale della sovraccapacità produttiva sta raggiungendo livelli critici. Si prevede che i 602 milioni di tonnellate del 2024 saliranno a 721 milioni di tonnellate entro il 2027, ovvero cinque volte la domanda annuale dell’Ue“.
In un decennio, da un surplus di 11 milioni di tonnellate si è passati a un deficit di 10 milioni di tonnellate, ha avvisato Šefčovič, con un calo della produzione di acciaio di 65 mln di tonnellate dal 2007 e un utilizzo della capacità produttiva “pari solo al 67%, ben al di sotto del sano parametro di riferimento dell’80% e al di sotto dei livelli di redditività”.
C’è poi la questione dei dazi a stelle e strisce: gli Usa hanno imposto una tariffa del 50% sulle importazioni di acciaio che, oltre a colpire l’Unione direttamente, la colpisce indirettamente, perché è proprio qui che l’acciaio di Pechino che non andrà più negli Stati Uniti potrebbe riorientarsi.
Il fattore Trump
Ed ecco che Trump, se per una volta non è il motore immediato della scelta europea, rientra pienamente nel discorso. Il piano della Commissione infatti è quello di prendere più piccioni con una fava: contrastare Pechino, creare un fronte comune con Washington, con la sovracapacità cinese come ‘nemico’ comune, e ottenere al contempo un abbassamento delle tariffe americane sulla lega.
La questione in effetti è già stata toccata nell’accordo raggiunto tra Stati Uniti e Ue la scorsa estate, che ragiona su un sistema di quote tariffarie per l’acciaio. Ma in queste settimane stanno proseguendo i colloqui per rendere concreto e operativa l’intesa di luglio e la conseguente Dichiarazione congiunta. In questo contesto, i nuovi dazi europei potrebbero fungere anche da arma negoziale.
Dall’altro lato, l’amministrazione Trump sta facendo pressioni per ottenere concessioni sulla legislazione digitale del blocco, ovvero sul Digital Markets Act (Dma) e sul Digital Services Act (Dsa). L’Unione ha ribadito e ribadisce che non toccherà queste due normative. Trump, per il quale “il riscaldamento climatico è la più grossa truffa della storia”, vuole poi ‘concessioni ‘favori’ in tema di clima e conformità aziendale, che invece per l’Unione sono pietre miliari. O meglio lo erano, perché anche internamente al blocco sta avvenendo una sorta di ‘ritorno di marea’ che sta facendo retrocedere sullo stesso Green Deal.
In effetti in quest’ambito la Dichiarazione congiunta contiene già più di una concessione agli Usa, nella parte in cui afferma che la produzione di certe materie prime all’interno egli Stati Uniti “rappresenta un rischio trascurabile per la deforestazione globale“ e che l’Ue lavorerà “per rispondere alle preoccupazioni dei produttori ed esportatori statunitensi”. Il testo prevede poi anche una certa “flessibilità” per le aziende americane rispetto al Carbon Border Adjustment Mechanism (Cbam), che stabilisce una tassa sui prodotti ad alta intensità di emissioni che entrano nell’Unione.
Tuttavia, accordare ‘favori’ non mina solamente la credibilità delle politiche ambientali di cui finora l’Unione ha fatto il proprio fiore all’occhiello (e nelle quali si è conquistata una leadership globale che sta rapidamente svanendo), ma apre anche a richieste di concessioni da altri Paesi. Sta già accadendo: Il Sudafrica, con cui il blocco ha recentemente avviato colloqui per partnership su energia pulita e commercio, ha avanzato richieste proprio basandosi sulla Dichiarazione congiunta.
Ue come Trump?
A questo punto potrebbe sorgere un dubbio: con le nuove misure proposte dalla Commissione l’Unione si comporta come Trump? Séjourné ha spiegato a Bloomberg: “Condividiamo la stessa agenda industriale degli Stati Uniti: vogliamo più produzione locale, più crescita economica e protezione per la nostra industria”.
Ma a chi parla di politica “aggressiva”, ha risposto presentando le nuove misure tariffarie per l’acciaio: “No. L’Europa non ha aggiornato la protezione del suo mercato; la nostra sovranità è in gioco. Non stiamo facendo come “gli americani”: le quote rimangono – 18 milioni di tonnellate –, in questo quadro è previsto un trattamento preferenziale e continueremo i nostri scambi commerciali, nell’ambito dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, con ciascuno dei nostri partner”.
“L’industria siderurgica europea era sull’orlo del collasso; la stiamo proteggendo affinché possa investire, decarbonizzare e tornare competitiva. Non si decarbonizza deindustrializzandosi”, ha puntualizzato.
Il commissario ha inoltre sottolineato che il nuovo regime è stato sviluppato in collaborazione con sindacati e produttori: “Tuteliamo il mercato siderurgico europeo, ma lo facciamo con i nostri valori e il nostro metodo: rispetto del diritto internazionale e dialogo con i nostri partner”.
Il provvedimento, che passa al Parlamento e al Consiglio per l’approvazione, non sarà temporaneo: si tratta di una protezione strutturale. E a chi teme un’impennata dei prezzi, Séjourné ha chiarito: “L’effetto finale sarà limitato: circa 50 euro per un’auto, 1 euro per una lavatrice. Questo è il prezzo ragionevole per la nostra sovranità e i nostri posti di lavoro in Europa”.