La crisi demografica europea è sempre più preoccupante, ma le attuali vicissitudini geopolitiche stanno spostando l’attenzione delle istituzioni e dei cittadini su un contesto nuovo, a cui l’Europa non era abituata. Guerre, dazi, rottura delle alleanze che hanno caratterizzato il Secondo Dopoguerra: nulla è più come prima per l’Unione europea. Lo stravolgimento dell’ordine che conoscevamo è iniziato nel 2020 con la pandemia da Covid-19, è arrivato fino ai giorni nostri e sembra destinato a continuare.
Se l’emergenza sanitaria ha, indirettamente, messo in risalto la capacità dell’Unione di adattarsi rapidamente ed efficacemente a scenari tragici e imprevisti, i successivi eventi geopolitici si stanno rivelando più difficile da gestire. L’invasione dell’Ucraina da parte di Putin, alle porte dell’Ue, e il nuovo corso degli Usa di Donald Trump, che strizza l’occhio a Mosca mentre impone dazi a Bruxelles, sono sfide cruciali per il futuro dell’Unione.
A differenza di quanto avvenuto con la pandemia, in questi scenari non basta essere uniti e prendere le scelte giuste per reagire alla crisi: occorre fare i conti con le decisioni, imprevedibili e ondivaghe, di attori economici molto più pesanti dell’Ue.
Eppure, i guai per i Ventisette non sono iniziati nel 2020. Tra gli scenari che l’Europa deve affrontare, ci sono le culle sempre più vuote, un problema che deriva da lontano e che lontano si proietta perché si basa sulla demografia, una scienza statistica ampiamente prevedibile. Sicuramente più delle scelte di Vladimir Putin, Donald Trump e Xi Jinping.
Entro il 2050, l’Europa perderà 49 milioni di lavoratori mentre l’Africa guadagnerà un miliardo di abitanti: una trasformazione geopolitica che ridefinirà equilibri economici, militari e strategici di tutto il mondo. Lo studio firmato da Alberto Rizzi, policy fellow dello European Council on Foreign Relations, “Markets, Migrants, Microchips: European Power in a World of Demographic Change” fotografa un continente a un bivio: accettare il declino o trasformare la crisi in opportunità.
A guardare i numeri può sembrare strano, ma l’attuale contesto geopolitico, per quanto sfavorevole, offre dei vantaggi che l’Unione europea può e deve sfruttare per non soccombere sotto la scure della crisi demografica.
Perché la transizione demografica minaccia l’Europa
La popolazione mondiale ha superato gli 8,2 miliardi di persone e, secondo le proiezioni di UN World Population Prospects (la previsione demografica più completa e dettagliata al mondo), crescerà fino a 10,4 miliardi verso il 2080, per poi iniziare un lento declino. L’età mediana globale salirà da 30,6 anni nel 2025 a 35,8 nel 2050, ed entro la fine degli anni 2070 gli anziani sopra i 65 anni supereranno i minori di 18. La Terra rischia di diventare una “società grigia”, con meno produttività, meno consumi e più spesa pubblica.
Il quadro non è omogeneo. L’India ha superato la Cina come Paese più popoloso con 1,6 miliardi di abitanti previsti nel 2050, mentre il Dragone ha già superato il picco demografico e ora deve fare i conti con le pericolose conseguenze della politica del figlio unico: nel 2050 avrà poco più di 1,2 miliardi di abitanti con età mediana di 52 anni. Forse questo, più che gli Stati Uniti di Donald Trump, è la minaccia più grande per le mire economiche di Xi Jinping.
Intanto la popolazione africana esplode: da 1,5 miliardi odierni a quasi 2,5 miliardi nel 2050, fino a 3,8 miliardi entro fine secolo. Nigeria ed Etiopia guideranno questa crescita con incrementi rispettivamente di 125 milioni e 100 milioni di abitanti.
Il centro di gravità demografico si sposta verso Sud ed Est: i Paesi africani e quelli asiatici assorbiranno la maggior parte dell’incremento di popolazione, mentre la quota demografica europea scenderà ben al di sotto del 5-6% globale.
Crescita demografica non è sempre sinonimo di potenza economica, né la crisi demografica condanna definitivamente a quella economica. A patto che si prendano delle contromisure efficaci e precise.
Il declino demografico dell’Europa e il crollo dei lavoratori
L’Unione Europea è fra i continenti più avanzati nel processo di transizione demografica. Secondo le proiezioni, il picco demografico comunitario si avrà intorno al 2026, dopodiché comincerà un calo graduale. L’intera Ue passerà da circa 447 milioni oggi a solo 421,7 milioni entro il 2050. Entro il 2100 la forza lavoro dell’Ue si ridurrà di circa 57,4 milioni di unità, mentre l’indice di dipendenza degli anziani passerà dal 33% attuale al 60%. Questa voce misura il rapporto tra la popolazione over 65 e quella in età lavorativa (15-64 anni), espresso in percentuale. Quando l’indice sale al 60%, significa che ogni 100 lavoratori dovranno sostenere economicamente 60 pensionati attraverso contributi e tasse, creando una pressione insostenibile sui sistemi previdenziali e sanitari.
La crisi demografica si traduce in una bomba economica a orologeria. Il rapporto Bruegel presentato ai ministri delle Finanze Ue a Budapest rivela che la popolazione in età lavorativa (20-64 anni) crollerà da 264 milioni a 207 milioni (-21%) entro il 2050. Questo significa che ogni lavoratore europeo dovrà sostenere un numero crescente di pensionati: il rapporto passerà dall’attuale 3:1 a 2:1 nel 2050.
L’impatto sui conti pubblici è devastante. L’invecchiamento della popolazione esercita una pressione crescente sui rapporti debito/PIL dei Paesi Ue, incrementando la spesa pubblica netta e riducendo la crescita potenziale. Per l’Italia, la situazione è particolarmente critica: il rapporto debito/Pil è previsto in aumento dal 135,3% nel 2024 al 138,2%. Per questo, il Paese deve imparare a sfruttare al meglio le risorse ancora inespresse nel mondo del lavoro.
Il paradosso della produttività
Dal 2008, i Paesi Ue non sono riusciti a tenere il passo con gli Usa in termini di produttività. La produttività del lavoro europea è passata dal 22% del livello Usa nel 1945 al 95% nel 1995, ma successivamente è scesa sotto l’80% del livello statunitense. In Italia, nonostante la buona performance post-pandemica, la crescita media annua pro capite nel quindicennio 2008-2023 è nulla.
Il divario tecnologico tra le due sponte dell’Oceano Atlantico si allarga inesorabilmente. Solo quattro delle prime cinquanta aziende tecnologiche mondiali sono europee. Dal 2013 al 2023, la quota europea dei ricavi tecnologici globali è scesa dal 22% al 18%, mentre quella americana è salita dal 30% al 38%. Circa il 70% dei modelli di Ai fondamentali è stato sviluppato negli Usa dal 2017, e solo tre “hyperscaler” americani controllano oltre il 65% del mercato cloud globale ed europeo. La battaglia tra Usa e Cina è entrata nel vivo, mentre l’Europa prova a dire la sua, ma resta a distanza siderale dai colossi.
L’eccezione della Francia: europea ma non in crisi demografica
In questo scenario, le istituzioni si chiedono cosa fare per arginare il problema delle culle vuote.
Spunti interessanti arrivano dalla Francia, l’unico grande Paese europeo che, secondo le previsioni, continuerà a crescere demograficamente fino alla fine del secolo. La popolazione francese dovrebbe raggiungere i 68,5 milioni di abitanti entro il 2096.
Cosa hanno i cugini d’Oltralpe che non hanno gli altri Paesi europei? Un approccio più variegato, coraggioso ed equilibrato nei confronti della transizione demografica che il Paese riesce a non gestire grazie alla combinazione di sostegni – asili diffusi, congedi parentali, cultura del lavoro part-time – e flussi migratori. La lezione per l’Europa è chiara: occorre bilanciare le misure pro natalità con politiche di immigrazione e di welfare lavorativo di ampio respiro e di lungo orizzonte.
Le conseguenze della crisi demografica sul mercato unico
La più grande ricchezza per l’Unione europea, spiega ancora lo studio Ecfr, è il mercato unico che, con 440 milioni di consumatori integrati, rende l’Ue il maggior esportatore mondiale di beni e servizi e partner irrinunciabile per circa 80 Paesi. Ma se quel mercato si riduce, anche il suo peso negoziale crolla.
Meno europei significa meno domanda interna. Con l’invecchiamento, gli acquisti di beni durevoli e innovativi si ridurranno e le imprese perderanno importanti fette di mercato. Con meno clienti da offrire, i partner mondiali avranno meno incentivi a chiudere contratti vantaggiosi per l’Europa.
Il mercato del lavoro europeo ha una disoccupazione storicamente bassa e 5,5 milioni di posti di lavoro creati dal 2019, ma nasconde fragilità strutturali che dipendono dalla crisi demografica e dall’innalzamento dell’età media. Come avviene a livello nazionale per l’Italia, la situazione occupazionale riesce ad essere ancora resiliente grazie al contribuito decisivo dei cittadini extracomunitari, compresi i profughi dall’Ucraina, e le persone di età compresa tra i 55 e i 64 anni occupati in posti di lavoro che presto diventeranno vacanti.
Cosa può fare la Commissione europea
L’Ue dispone di strumenti per attenuare il declino e trarne vantaggio competitivo. Completare il mercato unico libererebbe nuove opportunità di crescita. Come già suggerito dall’ex presidente della Bce, Mario Draghi, snellire le regole, accelerare la digitalizzazione transfrontaliera, abbattere ostacoli agli scambi farebbe guadagnare redditi e posti di lavoro a parità di popolazione.
L’allargamento dell’Europa rappresenta un’opportunità demografica. I Paesi dei Balcani occidentali, insieme a Georgia, Moldavia e Ucraina, potrebbero aggiungere circa 48 milioni di abitanti all’Ue, che andrebbero a rafforzare il mercato unico.
La Commissione suggerisce una serie di politiche per alleviare le pressioni demografiche:
- aumento dell’immigrazione;
- miglioramento dei tassi di fertilità;
- miglioramento dei tassi di partecipazione alla forza lavoro;
- incremento della produttività;
- riduzione dei costi di assistenza a lungo termine per gli anziani.
Tuttavia, i Paesi Ue sono riusciti a dar seguito a queste linee guida solo parzialmente.
L’intreccio tra economia e demografia
Demografia ed economia sono ingranaggi di un motore: quando uno rallenta, l’altro soffre. I Paesi più anziani vedono frenare l’innovazione. Restando in questi binari, la risposta è duplice: spingere sull’automazione e intensificare la formazione. Se si esce da questo campo, l’immigrazione regolare resta la principale risposta alla crisi demografica e di produttività.
Il problema, spiega l’European Council on Foreign Relations, è l’incapacità europea di trasformare la ricerca in commercializzazione: nonostante l’Europa abbia una posizione forte nella ricerca fondamentale e nei brevetti, gran parte di queste invenzioni rimane inapplicata commercialmente.
Inoltre, la frammentazione del mercato unico ostacola la crescita delle imprese innovative, riducendo la domanda di finanziamenti e limitando le possibilità di adottare economie di scala, tipiche di strategie di consolidamento. Tra il 2008 e il 2021, 147 startup europee diventate “unicorns” hanno spostato la loro sede oltreoceano, quasi sempre negli Stati Uniti. Questo esodo di talenti rappresenta una perdita netta di capitale umano e innovativo per l’Europa, ma il trend potrebbe invertirsi “grazie” a Donald Trump.
La battaglia dei microchip
Il settore dei semiconduttori rivela con spietata chiarezza le vulnerabilità strategiche dell’Europa in un mondo sempre più digitalizzato. Nonostante l’European Chips Act da 43 miliardi di euro, la Corte dei Conti europea ha emesso un verdetto inequivocabile: è “molto improbabile” che l’Ue raggiunga l’obiettivo del 20% di quota mondiale entro il 2030. Le previsioni parlano di un modesto 11,7%, ben lontano dalle ambizioni continentali.
L’Europa ha visto più che dimezzata la propria quota di mercato dall’inizio del secolo, scendendo sotto il 10% della produzione globale. Mentre Taiwan, Corea del Sud, Cina e Giappone controllano oltre il 50% del mercato mondiale, l’Europa arranca con una pesante assenza nei nodi tecnologici sotto i 10 nanometri e nei componenti per l’intelligenza artificiale. Solo lo stabilimento Intel in Irlanda produce chip avanzati, ma vive un momento critico con migliaia di licenziamenti.
Il continente eccelle nella ricerca e nella produzione degli strumenti di lavorazione dei semiconduttori, ma ha una quota marginale nel mercato dei chip finiti. Le aziende europee come Infineon, STMicroelectronics e NXP si concentrano prevalentemente sul settore automotive, proprio quello colpito dalla crisi della transizione elettrica e dalla competizione cinese1. STMicroelectronics ha dovuto ricorrere alla cassa integrazione per 2.500 dipendenti a Catania, segnale di un settore sotto stress.
La dipendenza strategica è allarmante: l’Ue importa il 78% dei microchip avanzati, esponendosi a ricatti geopolitici in un momento in cui ogni dispositivo smart – dalle automobili agli elettrodomestici, dalle infrastrutture sanitarie all’automazione industriale – dipende da questi componenti. Il quadro è emerso in tutta la sua ineluttabilità nel 2020, quando la pandemia ha causato un calo di un terzo della produzione automobilistica europea, dimostrando la fragilità delle catene di approvvigionamento.
Gli investimenti europei, pur significativi, impallidiscono di fronte alla concorrenza: 31 miliardi di dollari totali al 2025 contro i 120 miliardi americani e i 90 di Taiwan. Il progetto più ambizioso, l’European Semiconductor Manufacturing Company a Dresda con 5 miliardi di euro, vedrà la piena operatività solo nel 2031. Troppo tardi per una corsa che si decide oggi.
Esercito europeo e crisi demografica: saremo costretti alla leva obbligatoria in tempi di pace?
Mentre l’Europa fa (o dovrebbe fare) i conti con i suoi crucci demografici, la Russia di Putin continua a bombardare l’Ucraina. Mosca è diventata un nemico dell’Ue, un vecchio fornitore di energia che ha scelto di diventare una “canaglia” ai confini dell’Europa, citando Ursula von der Leyen.
Per questo, e nonostante la perplessità di molti Paesi, la presidente della Commissione Ue ha lanciato il ReArmEu, un piano da 800 miliardi di euro per riarmare l’Unione. Ma la crisi demografica resta, l’età media della truppa sale e alcuni eserciti non riescono a raggiungere il numero di effettivi previsti. In futuro ci saranno sempre meno giovani disponibili come reclute.
La contraddizione è evidente: gli eserciti si sgonfiano per mancanza di personale mentre la domanda di difesa aumenta. Per questo l’Ecfr non esclude che nel prossimo futuro l’Europa ricorra alla leva obbligatoria anche in tempo di pace. Diversi Paesi come Francia o Finlandia hanno già un servizio militare di base.
Uno scenario ancora più verosimile da quando la guerra in Ucraina ha dimostrato che i corpi di fanteria contano ancora. Il Paese aggredito, con 45 milioni di abitanti prima dell’invasione, ha mobilitato oltre un milione di persone, mentre la Russia ha perso quasi un milione di militari su una base demografica di 144 milioni.
Opportunità inattese: gli assist di Trump e di Xi Jinping
Dunque, la crisi demografica apre nuovi spazi di manovra. I nuovi “poli” demografici – Africa e Asia – stanno diventando mercati chiave e fornitori di forza lavoro. L’Ue può stringere rapporti privilegiati investendo nel Sud del mondo per garantire stabilità politica e crescita commerciale in un rapporto win-win, come ha già iniziato a fare.
D’alta parte le previsioni economiche di primavera 2025 della Commissione europea mostrano come l’incertezza della politica commerciale americana stia già influenzando l’economia europea. La crescita del Pil reale Ue è prevista all’1,1% nel 2025, con un impatto stimato dei dazi americani di circa 0,2 punti percentuali, mentre l’export comunitario registra importanti segni di contrazione.
Paradossalmente, se la nuova amministrazione Trump dovesse chiudere ulteriormente le porte ai migranti e alle sue menti migliori, l’Europa potrebbe beneficiarne. In assenza di alternative negli Usa, molti lavoratori qualificati cercheranno comunque un’uscita in Occidente e l’Ue potrebbe diventare la meta naturale per tutti questi “cervelli in fuga”.
Immigrazione? No, la Cina vuole risolvere la crisi demografica con i robot
A causa della sua ancestrale chiusura al mondo esterno, la Cina vuole affrontare il problema demografico puntando sull’automazione, rinnegando l’immigrazione come possibile risposta alla crisi. Diverse imprese cinesi utilizzano già i robot per le funzioni più pesanti e ripetitive, a volte colmando un posto di lavoro che sarebbe rimasto vacante.
A fine 2024 Pechino ha lanciato un piano per creare entro il 2029 una rete nazionale di assistenza agli anziani basata su robot umanoidi e intelligenza artificiale. Con oltre 216,7 milioni di persone oltre i 65 anni, la domanda di assistenza supera la capacità del personale umano. Non solo, la Cina sta anche producendo robot domestici avanzati e servizi di Ai per supportare gli operatori sanitari: automi che interagiscono come compagnie emotive, monitorano parametri vitali, forniscono assistenza domestica intelligente. Questo approccio potrebbe offrire spunti interessanti per l’Europa, che deve affrontare sfide simili e capire come sfruttarle a proprio favore.
Cosa può fare l’Ue? Spunti dal passato e dai colossi economici
Sette europei su dieci ritengono che le tendenze demografiche in atto mettano a rischio la prosperità economica e la competitività a lungo termine dell’Unione. Bruxelles vuole affrontare il deficit demografico rispettando i valori democratici di coesione e protezione sociale. Per fare entrambe le cose occorre rinforzare il tessuto sociale: immigrazione regolare e integrata nella collettività, politiche di conciliazione famiglia-lavoro, assistenza all’infanzia, sanità pubblica robusta permetterebbero ai Ventisette di non essere travolti dalla crisi demografica. Gli unici argini a una forza che, alla stregua del magma che ribolle sotto i vulcani, ha radici profonde e non può essere risolta con provvedimenti spot.
Serve anche un nuovo approccio, capace di trasformare i punti di debolezza in punti di forza. Per questo, la Commissione europea ha identificato nelle economie incentrate sulle generazioni più anziane, le cosiddette “silver economy”, una strategia cruciale per consolidare la propria economia.
L’Europa del 2050 non sarà quella di oggi. Il continente che ha plasmato la modernità si trova a un bivio: accettare un declino demografico che erode il peso globale o trasformare la sfida in opportunità strategica. Come sottolinea l’Ecfr, le decisioni prese in questo periodo storico genereranno effetti nei prossimi decenni: conviene agire ora con coraggio e coerenza piuttosto che aspettare che la situazione precipiti. Senza flussi controllati, Paesi come l’Italia si troverebbero con un rapporto lavoratori-pensionati insostenibile (0,88 occupati per pensionato entro il 2050). È necessario creare canali legali per lavoratori qualificati: riconoscere titoli di studio esteri, stabilire corsi di lingua gratuiti, garantire veloce integrazione nel mercato del lavoro.
La demografia europea del futuro si scrive nelle decisioni di oggi, tra i corridoi di Bruxelles e i palazzi di governo dei Ventisette. Il tempo per agire si assottiglia come la popolazione attiva. La sfida non è solo demografica, ma economica, tecnologica e geopolitica: l’Europa deve reinventarsi per mantenere il suo posto nel mondo.