C’è un cambio d’aria palpabile a Londra. Per la prima volta da anni, i ministri britannici parlano dell’Unione Europea con un tono che sa di urgenza. La ministra delle Finanze, Rachel Reeves, lo ha detto chiaramente intervenendo davanti al Comitato economico del Fondo Monetario Internazionale: la Brexit è tra le principali cause del rallentamento dell’economia britannica. Una presa di posizione che fino a poco tempo fa sarebbe stata politicamente impensabile.
Ma l’entusiasmo non basta a cambiare la sostanza dei negoziati. L’Europa ascolta, ma non accelera. E la nuova spinta britannica rischia di scontrarsi con la calma operativa di Bruxelles — e con la riluttanza dei Ventisette a concedere a Londra una via d’uscita che attenui gli effetti del divorzio.
Londra accelera
Per mesi, il governo laburista ha usato formule prudenti sul suo impegno a “resettare” i rapporti con l’Unione Europea. Ora, il linguaggio è cambiato. Dalla conferenza del partito a Liverpool al recente vertice di Bruxelles, la parola d’ordine è diventata “progressi rapidi”. Nick Thomas-Symonds, ministro per le relazioni con l’Ue, ha sottolineato davanti al Collegio d’Europa che “offrire ai giovani l’opportunità di apprendere e fare esperienza è vitale”. Una dichiarazione che segna una svolta: in opposizione, i laburisti avevano escluso qualsiasi schema di mobilità giovanile.
Reeves, da parte sua, ha definito la cooperazione con l’Ue “una priorità economica”, chiedendo un programma “ambizioso, buono per la crescita e per le imprese”. A Bruxelles, il messaggio è arrivato chiaro: Londra vuole muoversi in fretta su agricoltura, energia e difesa. Dopo l’accordo sulla pesca firmato in primavera, il governo britannico spinge per nuovi tavoli negoziali.
Dietro l’urgenza ci sono motivi politici e contabili. Il primo è interno: legare le difficoltà economiche al lascito della Brexit serve a neutralizzare il messaggio di Nigel Farage e della destra conservatrice. Il secondo riguarda i conti pubblici. La ministra delle Finanze punta a far inserire nel prossimo bilancio il progetto di un programma di mobilità giovanile, che l’Office for Budget Responsibility potrebbe considerare un incentivo alla produttività.
C’è anche una scadenza concreta. Dal 2026 entrerà in vigore il Carbon Border Adjustment Mechanism, il sistema con cui l’Ue impone dazi sulle importazioni di prodotti ad alta intensità di carbonio. Senza un’intesa, le esportazioni britanniche di acciaio e vetro rischiano tariffe aggiuntive. E, sul fronte della difesa, Londra teme di restare esclusa dal nuovo programma europeo SAFE se non sarà raggiunto un accordo entro l’anno. Downing Street ha fretta, ma la fretta non basta a spostare Bruxelles.
I dossier tecnici
Dietro i segnali politici, i negoziati tra Regno Unito e Unione Europea restano intrappolati in nodi regolatori. L’agricoltura è un banco di prova. Bruxelles vuole garanzie sull’allineamento con le sue norme: Londra sarà disposta ad adottare gli standard europei su editing genetico, pesticidi e sicurezza alimentare? E quanto si avvicinerà al sistema europeo di stabilità del mercato del carbonio?
Reeves ha ammesso pubblicamente, davanti al Fondo Monetario Internazionale, che “la sfida di produttività del Regno Unito è stata aggravata dal modo in cui abbiamo lasciato l’Unione Europea”. Ha citato la stima dell’Office for Budget Responsibility, secondo cui la Brexit ha comportato un impatto negativo di circa il 4% del PIL a lungo termine rispetto a uno scenario di permanenza nel mercato unico. È un riconoscimento esplicito che segna una rottura rispetto alla linea seguita dai governi conservatori. Ma ammettere il danno non basta a ripararlo. Quattro anni di regolamenti divergenti hanno creato attriti strutturali nelle filiere industriali, dalla chimica all’agroalimentare. Tornare a una piena interoperabilità richiede anni di negoziati e un grado di fiducia politica che oggi manca.
Bruxelles, dal canto suo, non ha urgenze comparabili. La Commissione è concentrata su altre priorità — l’allargamento ai Balcani, la politica industriale verde, la sicurezza energetica — e non intende riaprire fronti tecnici complessi per un partner esterno.
La mobilità giovanile come banco di prova politico
Il programma di mobilità giovanile è diventato il simbolo della nuova fase dei rapporti tra Londra e Bruxelles. In teoria, è un programma per facilitare la mobilità dei giovani lavoratori e studenti, una sorta di ritorno parziale allo spirito dell’Erasmus. In pratica, rappresenta un test politico.
Il Regno Unito lo descrive come un investimento nel capitale umano e una risposta alle critiche sulla chiusura post-Brexit. L’Ue, invece, lo considera un dossier secondario. Le distanze restano marcate su due punti: le tariffe per i partecipanti e il numero complessivo di visti.
Dietro queste divergenze si nascondono priorità diverse. Per Bruxelles, la mobilità giovanile è una condizione negoziale, non un obiettivo strategico. Per Londra, è l’occasione di dimostrare che il rapporto con l’Ue può essere ricostruito senza tornare indietro sulla Brexit.
Il rischio, osservano alcuni diplomatici, è che un accordo su questo tema consenta all’Ue di rallentare i negoziati più delicati. È uno schema già visto: durante le prime trattative del 2017, Bruxelles impose la sequenza dei negoziati su diritti e frontiere prima di affrontare il commercio. Ora, la storia potrebbe ripetersi.
Il governo Starmer spera di invertire quella logica, ma i margini sono limitati. Bruxelles sa che Londra ha bisogno di un risultato politico visibile, e proprio questo riduce la sua leva negoziale.
Un’intesa sulla mobilità potrebbe arrivare presto, ma rischia di essere l’unica a breve termine.
Una strategia unilaterale in cerca di risultati
Il governo Starmer ha riportato la politica europea britannica su un terreno pragmatico. Niente più slogan sulla “Global Britain” né illusioni di autosufficienza economica. Reeves e Thomas-Symonds parlano apertamente di “ricostruire” un rapporto economico stabile con l’Unione, riconoscendo che la cooperazione è una condizione per la crescita.
Il problema è che la strategia appare unilaterale. Il Regno Unito ha bisogno di risultati rapidi per sostenere la manovra economica prevista a novembre, in cui l’Ufficio per la Responsabilità di Bilancio spiegherà il rallentamento della produttività e la necessità di nuove misure fiscali. L’Ue, invece, non ha lo stesso interesse immediato. Non rischia tensioni politiche interne e non teme un contraccolpo elettorale legato al tema Brexit.
Persino le aperture più consistenti — come la disponibilità britannica a riallinearsi alle norme europee nel settore chimico — trovano poco spazio politico a Bruxelles. Molti Stati membri non vedono vantaggi nel facilitare una “Brexit corretta”. Un Regno Unito che riesca a crescere fuori dall’Ue rappresenterebbe un precedente scomodo in un’Europa dove i partiti populisti chiedono da anni di ridurre la dipendenza da Bruxelles.
Così, la nuova urgenza di Londra potrebbe finire in uno stallo di lunga durata. Non per mancanza di buona volontà, ma perché gli interessi non coincidono. Il Regno Unito cerca sollievo economico immediato; l’Unione vuole stabilità e coerenza. Due obiettivi difficili da conciliare, anche in tempi di rinnovato entusiasmo.