Palestina, il fronte si allarga all’Onu. Italia resta ai margini

L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite si apre con il nodo Israele-Palestina
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Palestina Bandiera Canva

Il Palazzo di Vetro si prepara a una delle settimane più turbolente degli ultimi anni. L’apertura dell’80ª Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New Yorkcoincide con una conferenza di alto livello sulla soluzione di due Stati indipendenti, Israele e Palestina, co-presieduta da Francia e Arabia Saudita, che mette sul tavolo una decisione destinata a segnare una frattura geopolitica: il riconoscimento ufficiale dello Stato di Palestina. A sostenere l’iniziativa c’è un gruppo di Paesi europei e occidentali di peso – dal Regno Unito di Keir Starmer al Canada di Mark Carney, dall’Australia al Portogallo – che hanno già annunciato la loro intenzione di aderire. Altri, come la Francia di Emmanuel Macron, spingono per trasformare la conferenza in un atto politico concreto, in grado di invertire la percezione di stallo attorno al conflitto israelo-palestinese.

Le mosse di Londra, Ottawa e Canberra hanno un significato che va oltre la diplomazia di facciata. Non solo perché ribadiscono l’impegno verso la cosiddetta “la soluzione a due Stati”, da anni indicata dall’Onu come via d’uscita dal conflitto, ma perché arrivano nel momento in cui l’esercito israeliano ha intensificato le operazioni militari su Gaza City, sfidando gli appelli internazionali al cessate il fuoco. L’uso della parola “riconoscimento” in questo contesto diventa un atto politico che sposta equilibri, indebolisce la posizione israeliana sul piano internazionale e apre una faglia con Washington.

Gli Stati Uniti, tramite il segretario di Stato Marco Rubio, hanno bollato l’iniziativa come “simbolica e controproducente”, avvertendo che rischia di incoraggiare Hamas e rafforzare le frange estremiste anche all’interno della politica israeliana. Netanyahu ha parlato apertamente di “premio al terrorismo”, ribadendo che uno Stato palestinese equivarrebbe a “un suicidio politico” per Israele. Sul versante opposto, Ramallah accoglie con favore le nuove aperture: “È un passo che ci avvicina alla sovranità e all’indipendenza”, ha dichiarato il ministro degli Esteri palestinese Varsen Aghabekian Shahin. Il nodo politico si intreccia a quello umanitario: con una crisi che l’Onu definisce “catastrofica”, la mossa dei Paesi occidentali mira a rafforzare la credibilità della diplomazia multilaterale, ma rischia di aprire un nuovo scontro frontale nel cuore delle istituzioni internazionali.

Quanti Stati riconoscono la Palestina e cosa cambia con i nuovi ingressi

Oggi oltre 140 Paesi membri dell’Onu hanno già formalmente riconosciuto lo Stato palestinese, un numero che rappresenta la maggioranza dell’Assemblea Generale. A mancare sono soprattutto i governi occidentali, Stati Uniti in primis, e una parte significativa dell’Unione Europea, compresa l’Italia. il blocco dei Paesi pro-Palestina si concentra dunque nel Sud globale, dall’America Latina all’Africa, dal Medio Oriente all’Asia.

Con l’adesione annunciata da Regno Unito, Canada, Australia e Portogallo, il quadro cambia sensibilmente: per la prima volta tre membri storici del G7 e un Paese dell’Unione Europea si allineano con la maggioranza dell’Assemblea. È un colpo al tradizionale blocco occidentale, che finora aveva tenuto la linea dell’attesa, legando il riconoscimento a una trattativa diretta tra Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese. L’ingresso di Londra, Ottawa e Canberra rompe questa logica: il riconoscimento non viene più concepito come punto di arrivo, ma come leva per costringere le parti a sedersi al tavolo.

Sul piano numerico, non si tratta di una rivoluzione: la Palestina resta uno Stato riconosciuto da una larga maggioranza ma non ammesso come membro pieno dell’Onu per il veto degli Stati Uniti al Consiglio di Sicurezza. Ma l’impatto politico è evidente: se anche parte dell’Occidente decide di aderire, la pressione sull’asse Washington-Tel Aviv aumenta. Israele si trova così sempre più isolato nei palazzi della diplomazia multilaterale, mentre la narrazione di Netanyahu, centrata sul rifiuto di ogni soluzione a due Stati, rischia di perdere ascolto al di fuori del contesto interno.

Il tema rimane controverso: alcuni analisti sottolineano che un riconoscimento “a freddo”, in assenza di una reale unità politica e territoriale palestinese, rischia di cristallizzare le divisioni tra Cisgiordania e Gaza. Ma per i promotori, la priorità è spezzare l’immobilismo. Come ha dichiarato Macron, “la situazione a Gaza è intollerabile, servono passi concreti”. Per Israele, invece, è un passaggio che rischia di legittimare Hamas, un’organizzazione terroristica designata come tale dall’Ue, dagli Stati Uniti e dal Canada. La contraddizione è evidente: si riconosce uno Stato che di fatto non esercita sovranità unitaria, mentre una parte del suo territorio è controllata da un gruppo armato considerato terrorista dalla comunità internazionale.

L’Italia tra cautela diplomatica e piazze in agitazione

Mentre a New York si discute di riconoscimento, in Italia la giornata del 22 settembre è segnata dalle manifestazioni pro-Gaza indette dall’Usb, che ha proclamato uno sciopero generale a sostegno della popolazione palestinese. Roma non è sola: presidi e cortei sono stati organizzati in diverse città, con slogan che chiedono la fine dei bombardamenti e l’immediato riconoscimento dello Stato palestinese. È la fotografia di un Paese spaccato tra l’opinione pubblica e la linea ufficiale del governo.

Roma, Sciopero Generale Per La Palestina
Manifestazione a Piazza dei Cinquecento a Roma in occasione dello Sciopero Generale per la Palestina

La posizione dell’esecutivo è chiara. Il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha ribadito: “Non riconosceremo mai uno Stato governato dai terroristi. Lo Stato palestinese è diviso: da una parte l’Anp, dall’altra Hamas. Noi siamo ultra favorevoli al riconoscimento, ma il fatto è che non c’è uno Stato unitario e democratico da riconoscere”. Anche la premier Giorgia Meloni, pur criticando le scelte militari di Netanyahu definite “sproporzionate”, mantiene la linea della prudenza: sostegno alla soluzione dei due Stati, ma rifiuto di un riconoscimento unilaterale.

La distanza con i partner europei è evidente. Berlino si schiera sulle stesse posizioni di Roma, ma Londra, Parigi e Lisbona imboccano una strada diversa. Per la diplomazia italiana si apre quindi un terreno delicato: sostenere il processo multilaterale senza rompere con Israele né con gli alleati storici. Non è un caso che Tajani partecipi alla conferenza a New York, pur senza firmare alcun riconoscimento, e che l’Italia abbia co-sponsorizzato la risoluzione Onu del 12 settembre a favore della Dichiarazione di New York. Una posizione di equilibrio che rischia però di essere percepita come immobilismo in un momento in cui altri Paesi scelgono atti concreti.

Le piazze italiane segnalano una pressione crescente sull’esecutivo. La sensibilità dell’opinione pubblica verso Gaza è aumentata con il peggiorare della crisi umanitaria, e i sindacati non esitano a inserire il tema palestinese nelle rivendicazioni sociali. Per il governo, l’agenda internazionale si intreccia così con il fronte interno, in un autunno già carico di tensioni sociali e politiche.

Le implicazioni geopolitiche

Il riconoscimento della Palestina da parte di Paesi occidentali introduce un elemento di discontinuità nelle dinamiche internazionali. Da un lato, segna l’erosione del sostegno compatto che Israele ha storicamente goduto in Occidente. Dall’altro, mette in difficoltà gli Stati Uniti, che rischiano di apparire sempre più isolati nel difendere la linea del “non è il momento”. L’amministrazione Trump, già alle prese con le tensioni su Ucraina e Iran, si trova così a dover gestire una crepa all’interno del G7 che mina la credibilità dell’asse transatlantico.

Israele reagisce alzando i toni. Netanyahu denuncia “propaganda falsa” e parla di una “ricompensa al terrorismo”. Il ministro per la Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir arriva a evocare l’annessione della Cisgiordania, un’ipotesi che farebbe saltare definitivamente ogni ipotesi di negoziato. Sul fronte palestinese, Mahmoud Abbas, presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese e leader di Fatah, accoglie con favore la svolta, ma non potrà partecipare di persona all’Assemblea Generale: gli Stati Uniti gli hanno negato il visto, costringendolo a intervenire in collegamento video. Un segnale politico pesante, che conferma come la partita si giochi anche sul terreno dei gesti simbolici.

La conferenza di New York rischia quindi di trasformarsi in un banco di prova per il futuro dell’Onu. L’istituzione nata ottant’anni fa a San Francisco affronta oggi una delle crisi più complesse della sua storia, con il bilancio in sofferenza per i mancati contributi americani e una credibilità messa a dura prova dai conflitti in Ucraina e Medio Oriente. Se la maggioranza degli Stati membri spinge per accelerare sul riconoscimento, ma uno dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza mantiene il veto, l’impasse rischia di diventare strutturale.

L’Italia si muove in questo scenario consapevole della propria posizione di cerniera. Da un lato, condivide la necessità di rilanciare la soluzione dei due Stati e di rispondere all’emergenza umanitaria. Dall’altro, non intende rompere con Israele né con gli Stati Uniti. Ma la scelta di altri partner europei di passare dalle dichiarazioni ai fatti rischia di isolare Roma sul piano politico. A New York, la premier Meloni ribadirà la linea della prudenza, ma la domanda resta: quanto a lungo l’Italia potrà restare sulla soglia, mentre i dossier internazionali si muovono verso riconoscimenti sempre più numerosi?