L’industria tecnologica europea continua a rimanere indietro rispetto ai colossi statunitensi e cinesi, nonostante le sue risorse e il suo potenziale. I numeri parlano chiaro: il valore di mercato di Apple da solo supera l’intero mercato azionario tedesco. E mentre negli Stati Uniti e in Cina le aziende tecnologiche fioriscono grazie a finanziamenti privati, capitali di rischio e politiche industriali aggressive, l’Europa fatica a tenere il passo. I fondi disponibili per le startup tecnologiche europee rappresentano solo un quinto di quelli americani, ostacolando la crescita e l’innovazione.
Secondo un’analisi del Wall Street Journal, le cause sono profonde e radicate nel tessuto economico, culturale e normativo del continente. Se il problema tecnologico dell’Europa si può attribuire a fattori come la regolamentazione, la frammentazione del mercato e la difficoltà di accesso ai finanziamenti, c’è chi sostiene sia un ingrediente a mancare all’Europa: secondo l’imprenditore founder ed ex Ceo di HouseTrip, Arnaud Bertrand, la vera causa è la mancanza di “orgoglio europeo“.
Ma andiamo con ordine.
Un ecosistema imprenditoriale frenato dalla burocrazia
Gli imprenditori europei lamentano spesso un mercato più frammentato rispetto a quello statunitense, con leggi sul lavoro rigide e normative complesse che ostacolano la scalabilità delle imprese. La difficoltà nel reperire investimenti flessibili e dinamici porta molte startup promettenti a trasferirsi negli Stati Uniti, dove il capitale privato è maggiormente disponibile e le regolamentazioni meno vincolanti.
Nel 2023, le startup statunitensi hanno raccolto 138 miliardi di dollari, quasi tre volte i 52 miliardi ottenuti dalle startup europee. Gli Stati Uniti hanno un ecosistema di venture capital più maturo, con un numero maggiore di investitori privati rispetto all’Europa. Dopo cinque anni, le startup americane hanno il 40% di probabilità in più di ottenere finanziamenti rispetto a quelle europee, secondo un’analisi pubblicata da Pitchbook.
Molti professionisti del settore scelgono di lavorare per aziende americane o di trasferirsi nella Silicon Valley, attratti da stock option – opzioni che permettono ai dipendenti di acquistare azioni dell’azienda a un prezzo fisso, realizzando un profitto se il prezzo di mercato aumenta – più vantaggiose e da una cultura del rischio più dinamica. La storia raccontata dal quotidiano statunitense è quella di Thomas Odenwald, imprenditore tedesco tornato negli Usa dopo un breve tentativo di contribuire alla costruzione di un colosso tecnologico europeo, è emblematicamente rappresentativa di questa tendenza.
L’ossessione per la regolamentazione: un boomerang?
Secondo il Wall Street Journal, mentre Stati Uniti e Cina investono massicciamente in intelligenza artificiale e nuove tecnologie, l’Europa si concentra su normative severe e regolamenti che, anziché favorire l’innovazione, rischiano di soffocarne la crescita. La recente entrata in vigore dell’Ai Act europeo ha già causato ritardi nel lancio di prodotti da parte di colossi tecnologici come Meta e Apple, spingendo alcune startup a trasferirsi altrove. L’analisi sottolinea come l’Europa rischi di perdere anche la seconda rivoluzione tecnologica, dopo essersi lasciata sfuggire la prima.
È stato proprio l’ex premier italiano, nonché ex presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, ad aver sottolineato quanto la debolezza dell’industria tecnologica dell’Ue rappresenti una sfida esistenziale per il continente.
Uno dei problemi che sottostà a questa dinamica riguarda il fatto che l’Unione europea non sia un blocco monolitico, ma che i singoli Paesi viaggiano a velocità diverse. Secondo l’European Innovation Scoreboard 2024, l’Europa presenta un panorama innovativo molto diversificato: la Danimarca si conferma il Paese più innovativo dell’Ue, superando la Svezia, che aveva mantenuto la leadership dal 2017 al 2022. L’Estonia ha registrato una crescita costante, passando da “Innovatore moderato” a “Forte innovatore”, mentre Belgio ha perso la sua posizione di Innovation Leader, pur mantenendo un buon livello di competitività.
Al contrario, Paesi come Italia, Spagna e Grecia continuano a incontrare difficoltà nel settore tecnologico, principalmente a causa di ostacoli burocratici e limitato accesso ai finanziamenti. A livello globale, il Global Innovation Scorecard 2025 analizza 74 Paesi, evidenziando il ruolo chiave di nazioni come Germania e Paesi Bassi nel mantenere un ecosistema tecnologico competitivo.
Questi dati mostrano come l’innovazione in Europa sia frammentata e richieda strategie su misura, affinché il continente possa competere più efficacemente con Stati Uniti e Cina. Senza un cambio di rotta radicale, il rischio è che gli Stati membri continuino a dipendere sempre più dalle aziende americane e cinesi, con tutte le implicazioni economiche e strategiche che ne derivano.
L’Europa prova a “rubare” i talenti americani
Nonostante le difficoltà strutturali, qualcosa si sta muovendo. L’Unione europea ha lanciato l’iniziativa Choose Europe, un piano volto ad attrarre ricercatori e accademici, offrendo loro un ambiente di studio libero e aperto. La crisi nelle università americane, colpite da tagli ai finanziamenti e da politiche restrittive, sta spingendo molti scienziati a cercare nuove opportunità altrove. Francia, Germania e altri Paesi europei, tra i quali anche l’Italia, stanno aprendo le porte ai talenti in fuga dagli Stati Uniti, con programmi di reclutamento e incentivi mirati.
Questa strategia potrebbe rappresentare una svolta per l’Europa, che da anni soffre di una fuga di cervelli. Se l’Ue riuscirà a trattenere e valorizzare questi ricercatori, potrà finalmente colmare il divario tecnologico con Stati Uniti e Cina? Questa è una questione cruciale.
Ma perché l’Europa dovrebbe concentrarsi sull’attrarre talenti dall’estero piuttosto che investire nella formazione e incentivare i propri? In effetti, alcune strategie europee vedono l’avvio di iniziative volte a migliorare la formazione e le competenze dei cittadini nel digitale. Ad esempio, la Nuova agenda per le competenze per l’Europa mira a garantire un accesso continuo alla formazione per favorire la crescita dell’occupazione e delle competenze. Inoltre, il programma Erasmus+ finanzia progetti per migliorare le competenze e favorire la collaborazione tra istituzioni educative e imprese. Alcuni Paesi europei, inoltre, stanno aumentando gli investimenti nella formazione avanzata e nella ricerca. La Francia e la Germania, ad esempio, hanno lanciato programmi per potenziare le università e i centri di ricerca, cercando di trattenere i talenti locali e ridurre la fuga di cervelli.
Nonostante questi sforzi, molte aziende europee continuano a lamentare la difficoltà di trovare lavoratori qualificati. Secondo Eurostat, nel 2023 il 44% dei cittadini europei manca di competenze digitali di base. Inoltre, un’analisi della Commissione europea evidenzia che più della metà dei lavoratori dell’Ue si considera digitalmente sottoqualificata per il proprio lavoro. Questo dimostra che, oltre ad attrarre talenti dall’estero, resta fondamentale investire nella formazione interna per garantire un ecosistema tecnologico competitivo.
Il problema principale è che in altri Paesi, anche extra-Ue, spesso è più facile cogliere migliori opportunità, percepire stipendi più alti, vivere un ecosistema tecnologico più dinamico. D’altro canto, attrarre esperti dall’estero può arricchire il panorama tecnologico europeo, portando nuove prospettive, know-how e collaborazioni internazionali. Tuttavia, senza un piano concreto per trattenere i talenti nazionali, il rischio è di creare un sistema che dipende dall’importazione di competenze anziché svilupparle internamente.
Una questione di “orgoglio europeo”: la visione di Bertrand
L’imprenditore Bertrand non si accontenta di questa visione e su un tweet su X racconta la sua esperienza con HouseTrip, una startup europea nata prima di Airbnb, ma che ha visto quest’ultima dominare il mercato europeo senza difficoltà, mentre lui ha dovuto cedere la sua creatura a Tripadvisor nel 2016.
Il racconto di Bertrand è chiaro: mentre i media europei snobbavano HouseTrip, per celebrare il competitor Airbnb, anche gli investitori e le élite europee mostravano scarso entusiasmo per le imprese locali, considerando le startup europee come semplici imitazioni prive di valore. Contrariamente all’Europa, Bertrand evidenzia come la Cina abbia creato condizioni favorevoli alla crescita delle proprie aziende senza necessariamente escludere la concorrenza straniera.
“Parlando della Cina – scrive sul social network Bertrand -, sono giunto alla conclusione che il patriottismo, una mentalità di sovranità profondamente radicata, è davvero l’ingrediente magico dietro il loro successo. Contrariamente a quanto si pensa, non lo fanno in modo stupido, limitandosi a vietare la concorrenza. Questi casi sono in realtà molto rari e si verificano solo se le aziende in questione violano la legge cinese in modo piuttosto grave. Nella maggior parte dei casi accade esattamente il contrario: accolgono con favore la concorrenza straniera, ma creano le condizioni affinché le alternative nazionali possano prosperare al loro fianco, offrendo alle aziende e agli utenti cinesi opzioni legittime per scegliere i campioni nazionali. Il che significa che, ad esempio, Apple ottiene buoni risultati in Cina, ma allo stesso tempo permette l’ascesa di Huawei o Xiaomi. O Tesla ottiene buoni risultati in Cina, ma allo stesso tempo permette l’ascesa di Byd o Nio. E così via. E la Cina, curiosamente, è più paragonabile all’Ue di quanto si pensi. È, ancora una volta contrariamente a quanto si pensa, estremamente decentralizzata quando si tratta di fare affari, con diverse province che competono tra loro proprio come i paesi dell’Ue”.
Secondo Bertrand, quindi, il problema europeo non è solo strutturale, ma è anche culturale: una sorta di “colonizzazione delle menti” che porta a percepire le startup americane come superiori, scoraggiando l’emergere di aziende europee. E a meno di un cambio di paradigma, il continente rischia di rimanere dipendente dai colossi tecnologici di Stati Uniti e Cina, perdendo la possibilità di competere efficacemente su scala globale.