*Pubblichiamo un articolo a firma di Rosario Cerra (presidente) e Alessandro Aresu (senior fellow) del Centro Economia Digitale
Nella geopolitica della tecnologia, il 2025 si è aperto, oltre che col caso TikTok, con le indiscrezioni che riguardano Intel, gigante ferito dell’industria dei semiconduttori. Da quando a dicembre è stato mandato via il CEO Pat Gelsinger, giunto nel 2021 al timone di Intel con un ambizioso piano di rilancio che non ha dato i risultati sperati, l’azienda è al centro di rumor sul suo spezzatino e su vari possibili acquirenti. Tra di essi, realtà ben più dinamiche dell’industria come Broadcom e Qualcomm e – da ultimo – perfino Elon Musk.
Per queste ragioni, il destino di Intel è un’interessante cartina di tornasole per leggere le prospettive del 2025, dove all’eccitazione dei leader tecnologici per l’inizio del mandato di Donald Trump si uniscono alcuni elementi di vulnerabilità degli Stati Uniti che vengono posti in primo piano, proprio da due veri e propri bubboni come Boeing e Intel. Intel ha circa 130.000 dipendenti a livello globale e Boeing ha circa 145.000 dipendenti solo negli Stati Uniti. Oltre all’importanza occupazionale e degli stabilimenti, si tratta di aziende centrali nella storia industriale statunitense e che, anche nel presente, sarebbero chiamate a svolgere un ruolo nella sfida alla Cina che, sul piano militare come su quello elettronico, si gioca sempre anche nella capacità manifatturiera.
La centralità di Elon Musk nella politica del nostro tempo e nelle sue partite tecnologiche, come ampiamente spiegato nel libro “Geopolitica dell’intelligenza artificiale”, nasce anche dal fatto che Musk è un imprenditore del rilancio manifatturiero degli Stati Uniti, che incarna questo sogno non solo sul piano reale, ma anche pratico. È stato Musk a rispondere coi fatti alla teoria della stagnazione tecnologica del suo “gemello diverso” ai tempi di PayPal, Peter Thiel, il quale per anni si è lamentato di un’innovazione negli Stati Uniti confinata ai bit e incapace di procedere nella fisicità, nelle infrastrutture, nella manifattura, a fronte della cavalcata asiatica degli ultimi decenni.
Oggi, competere nella tecnologia vuol dire sempre più anche competere nella produzione. Realizzare munizioni, navi, sistemi d’arma, razzi, satelliti, droni, automobili, batterie, schede grafiche, memorie, server, e molto altro. Saper assemblare tutto questo. Organizzare una forza lavoro per gestire in modo efficiente questi processi, con una logistica adeguata.
In modi diversi, le crisi di Boeing e Intel continuano a mostrare una vulnerabilità della manifattura degli Stati Uniti, con debolezze che si riflettono anche sulla forza di Washington, sulla sua proiezione, sulla diversificazione in settori fondamentali. E Musk, l’imprenditore manifatturiero che acquista una soverchiante influenza politica, viene così chiamato in causa nel software (TikTok) come nell’hardware (Intel).
A contare non è tanto il perfezionamento di questi rumor, ma la loro capacità di indicare un problema. Più a fondo, dal 2025 potremmo vedere una stagione di fusioni e acquisizioni che toccano anche la nuova manifattura statunitense, con gli imprenditori tecnologici attivi su varie filiere, dal nucleare, ai data center, alla mobilità, fino a droni e robotica. Il software, come nella profezia di Marc Andreessen, continuerà a “mangiare” il mondo; allo stesso tempo, i suoi rapporti di forza saranno a loro volta “mangiati” e cambiati dall’intelligenza artificiale.
Ma, per fabbricare la stessa intelligenza artificiale e tutto il resto, l’hardware continuerà a comandare. E il 2025 esprimerà questa doppia tendenza, cruciale per gli Stati Uniti, i loro avversari e i loro alleati.
Occorrerà prendere atto che, non solo con Trump, si è definitivamente chiusa la fase storica della pax americana, dell’ordine liberale internazionale post Seconda guerra mondiale. Siamo arrivati al capolinea perché il garante principale di quell’ordine ha valutato che gli oneri per sostenerlo sono superiori ai vantaggi. In questo quadro noi italiani ed europei passiamo dall’essere il partner preferenziale a un partner potenzialmente conveniente.
Ma è un errore pensare a Donald Trump come un isolazionista. In realtà è un unilateralista duro e puro che cercherà di far pesare la forza comparativa degli Stati Uniti nei vari campi.
E l’Europa cosa può fare? Nella produzione non sta messa poi così male, tanto è vero che Trump minaccia di ricorrere ai dazi per limitare il deficit commerciale con l’Europa. Difendere e rafforzare ulteriormente la capacità industriale europea diventa quindi un obiettivo centrale.
Per fare questo è prioritario capire come l’industria europea può interpretare in maniera originale le nuove tecnologie digitali in particolare l’IA e sviluppare applicazioni utili per cambiare il modo di produrre e “muovere” nel mondo le proprie merci.
C’è inoltre assoluto bisogno di individuare all’interno della filiera IA quali siano le fasi in cui l’Europa ha o può sviluppare un vantaggio competitivo. Nei microprocessori ad alte prestazioni oppure nel supercalcolo ad esempio. In questo campo anche l’Italia ha un posizionamento tutt’altro che irrilevante. Vista l’accelerazione degli Stati Uniti, è prioritario e urgente agire affinché il ciclo di investimenti dei data center, che toccherà anche l’Europa in modo consistente, possa essere un’opportunità di accrescere la capacità industriale interna in quella filiera.
È evidente che tali questioni possono essere realisticamente affrontate soltanto a livello di scala europea. Gli investimenti, le competenze, le infrastrutture, i mercati devono necessariamente essere di dimensione continentale. Come europee devono essere le risorse pubbliche da destinare alla trasformazione dell’industria europea e al sostegno alla domanda interna in un mondo in cui il modello export-led non sembra più praticabile e in cui la questione del costo dell’energia è fondamentale.
Questo perché le crescenti tensioni militari che si accompagnano a quelle economiche determinano un clima in cui lo scenario “business as usual” cede il passo a uno in cui emerge la necessità di abbracciare la complessità delle interdipendenze globali, per gestire al meglio le sue vecchie e nuove forme in un contesto geopolitico caratterizzato da profonda incertezza e insicurezza. Ne consegue che in un mondo che evolve a velocità sempre maggiori, adottare le strategie più avanzate per noi italiani ed europei non è più un’opzione, ma una necessità.
Questo vale sia per le Aziende che per gli Stati.
La Coopetizione – crasi di “cooperazione” e “competizione” –, nella più avanzata versione presentata dal Centro Economia Digitale nel suo ultimo Rapporto Strategico “Coopetizione”, è sicuramente la più importante tra queste, perché è la strategia in grado di combinare il meglio delle dinamiche competitive e cooperative al fine di crescere efficacemente sui mercati e gestire in sicurezza le relazioni economiche. Per le nostre organizzazioni, pubbliche e private, sviluppare al più presto competenze in quest’ambito è già una priorità.