Riceviamo e pubblichiamo l’intervento di Arvea Marieni, imprenditrice, manager ed esperta della Commissione Europea, nonchè Jury Member dello European Innovation Council Accelerator.
Il 3 dicembre 2024, la Commissione Europea ha annunciato l’assegnazione di 1 miliardo di euro al Fondo per l’Innovazione, finanziato attraverso le aste delle quote di emissione ETS. Tali risorse sono destinate a sostenere progetti per la produzione di batterie innovative per veicoli elettrici (EV) e sull’adozione di nuove tecnologie per la manifattura, con una particolare attenzione alla circolarità. Questo intervento si colloca nel quadro del più ampio piano dell’Unione Europea volto ad accelerare la transizione verde e ridurre le emissioni di gas serra, in linea con il Green Deal europeo, ora evoluto nel concetto di Clean Industrial Deal. Quest’ultimo integra anche misure sociali fondamentali per garantire la stabilità dei sistemi politici nazionali, minacciati dagli effetti economici disomogenei e dalle disuguaglianze derivanti dalla trasformazione industriale in corso.
Nonostante l’impegno dell’UE, i settori automobilistico e delle batterie si trovano ad affrontare numerose difficoltà. Le associazioni europee dei produttori di automobili e batterie evidenziano come principali ostacoli la debole domanda di veicoli elettrici e l’intensificarsi della concorrenza internazionale, in particolare da parte della Cina. Queste preoccupazioni alimentano le richieste di un rinvio delle sanzioni previste per le aziende che non riusciranno a rispettare i target di riduzione delle emissioni di CO2 delle flotte nel prossimo anno.
Una questione centrale riguarda la validità della narrativa dominante, che attribuisce la perdita di competitività europea principalmente alla concorrenza esterna, in particolare cinese. Secondo le analisi contenute nel Rapporto Draghi, questa interpretazione risulta parziale, se non errata, almeno nella versione proposta dall’ACEA (Associazione delle Case Automobilistiche Europee).
LA PRODUTTIVITÀ SCENDE IN EUROPA
Il Rapporto sottolinea che la perdita di competitività dell’Europa è più strettamente correlata a problematiche interne, quali la riduzione della produttività industriale e del lavoro, e a una carenza di investimenti strategici, piuttosto che alla sola competizione globale. Un elemento chiave emerso è l’incapacità dell’Europa di sfruttare appieno le opportunità offerte dalle due precedenti fasi della digitalizzazione. Attualmente in corso la terza fase, denominata Internet industriale o Internet 5.0, rappresenta un ambito in cui l’Europa ha ancora margini di leadership. Tuttavia, nella seconda fase della digitalizzazione, quella degli anni 2000, l’Europa ha subito pesanti sconfitte, come il declino di colossi tecnologici quali Ericsson e Nokia. Questo ha gravemente penalizzato la capacità produttiva europea, compromettendo la competitività in settori tecnologici e industriali cruciali. Il settore automobilistico, di conseguenza, ne ha risentito, poiché oggi le competenze digitali e software sono determinanti, e le case automobilistiche europee risultano significativamente arretrate rispetto ai principali concorrenti globali.
LE RADICI DEL RITARDO
Nel 2015, insieme a Corrado Clini, scrivemmo due articoli che anticipavano la rivoluzione imminente nel settore della mobilità, analizzando le discontinuità tecnologiche e le convergenze tra diversi ambiti di competenza industriale destinate a trasformare il panorama automobilistico e a minare la struttura e la forza degli automaker tradizionali. In entrambi gli articoli parlavamo di “Auto APP-ocalypse” e di elettrificazione, sottolineando come la sfida si sarebbe giocata principalmente sul software. Come spesso accade, immaginavamo che i disruptors sarebbero stati newcomers: aziende tecnologiche e piattaforme digitali che, insieme agli attori più innovativi del settore automobilistico, avrebbero costruito ecosistemi digitali interdipendenti capaci di: 1. Ridisegnare il concetto stesso di automobile; 2. Creare nuove reti di go-to-market; 3. Abbattere le barriere tra i settori industriali, aprendo la strada ad alleanze collaborative trasversali.
Guardando oggi quei ragionamenti, possiamo dire che avevamo visto giusto. Tuttavia, avevamo sopravvalutato il primato americano. All’epoca si guardava ad Apple come al probabile leader della rivoluzione. Pensavamo che gli Stati Uniti avrebbero guidato il cambiamento. Invece, oggi vediamo gli automaker cinesi stringere alleanze strategiche con aziende come Huawei, mentre in Occidente non possiamo contare su realtà con una forza paragonabile. La metà delle aziende tradizionali potrebbe essere spazzata via da nuovi concorrenti emergenti, uno scenario che ritengo sempre più probabile e che lo stesso Elon Musk ha confermato parlando del dinamismo cinese.
Mi ero sbagliata solo di qualche anno sulla tempistica della mia previsione. Non è un caso che si parli di Luca Maestri, un portoghese ex Apple, come possibile sostituto di Carlos Tavares. Il fatto stesso che si guardi ad Apple per un ruolo di leadership nel settore automobilistico riflette la trasformazione profonda in corso.
VENDITE IN CADUTA LIBERA PER LE CASE EUROPEE
Negli ultimi anni, le vendite delle case europee in Cina, il loro principali e mercato, sono cadute a picco. Qui la crisi è dovuta al fatto che i nostri modelli non sono attraenti per quel mercato, in cui l’auto è ormai un prodotto diverso da quello tradizionale. Le auto cinesi sono semplicemente migliori e costano di meno. Anche i modelli di vendita sono stati completamente rivoluzionati: le auto si vendono nei negozi di Huawei (telefonia) o persino nelle caffetterie. I repair shop sono dislocati in vari punti vendita, e la rete tradizionale (o il concetto stesso) dei concessionari, sta scomparendo.
In sintesi, sebbene la concorrenza internazionale sia un fattore importante, la vera sfida per l’Europa sta nel non aver capitalizzato appieno sulle opportunità di innovazione e digitalizzazione. Oggi, spiega il Rapporto Draghi, la strada obbligata punta a coniugare digitalizzazione e tecnologie verdi, per colmare il gap di produttività del nostro sistema.
Analizzando il caso della Cina, dal 2010 in poi Pechino, grazie a politiche industriali accorte e alla capacità di implementare strategie territoriali su larga scala, ha conquistato una competitività globale significativa nel settore delle nuove energie, in particolare nei veicoli elettrici (EV) e nei moduli fotovoltaici. Questo successo ha suscitato preoccupazioni in Europa e negli Stati Uniti, dove ci si interroga se tale vantaggio competitivo sia interamente frutto di sussidi governativi. In risposta, tanto l’Europa quanto gli USA hanno introdotto misure come tariffe unilaterali e avviato indagini anti-sussidi per arginare l’espansione di queste industrie.
Tuttavia, come sottolineato nell’analisi impietosa del Rapporto Draghi, una delle cause principali della perdita di leadership europea è da ricercarsi nell’incapacità di sviluppare politiche industriali lungimiranti e di adottare una pianificazione strategica efficace. Al contrario, la Cina ha saputo sfruttare la pianificazione a lungo termine, iniziando a sviluppare il settore delle nuove energie già negli anni ’70. Questo investimento è nato come risposta ai gravi problemi di inquinamento e agli impatti climatici allora previsti, ulteriormente aggravati dall’industrializzazione e dall’urbanizzazione.
LE POLITICHE INDUSTRIALI CINESI DAGLI ANNI 90’
Negli anni ’90, il governo cinese adottò obiettivi ambiziosi per la conservazione dell’energia e la riduzione delle emissioni, tracciando un chiaro indirizzo per le politiche industriali. Questa visione strategica incentivò le aziende a sviluppare metodi di produzione più ecologici e a investire in soluzioni innovative. Parallelamente, la Cina avviò politiche industriali coerenti e orientate allo sviluppo di settori strategici a medio termine, come quello delle batterie e dei veicoli elettrici.
Misure mirate, come l’esenzione dal sistema di lotteria per le targhe a Pechino e Shanghai, stimolarono l’adozione dei veicoli elettrici, rimuovendo ostacoli burocratici che penalizzavano i mezzi tradizionali. Tra il 2015 e il 2020, il governo cinese investì oltre 2 miliardi di dollari nella creazione di infrastrutture di ricarica, costruendo una rete di stazioni che precedette persino la diffusione capillare dei veicoli elettrici sulle strade.
Oggi, le vendite di veicoli elettrici rappresentano poco più del 50% del mercato automobilistico nazionale. A giugno 2023, la rete di ricarica cinese superava le 10,24 milioni di colonnine, in grado di alimentare oltre 24 milioni di veicoli elettrici in circolazione. Questo progresso impressionante dimostra l’efficacia di una pianificazione a lungo termine e di un approccio integrato allo sviluppo industriale e infrastrutturale.
GLI STANDARD GUIDANO L’ INNOVAZIONE
Contrariamente ad alcune narrazioni diffuse in Europa, la Cina ha progressivamente introdotto, sin dal 2004, standard sempre più stringenti sul consumo di carburante per i veicoli, incentivando i produttori a sviluppare tecnologie più efficienti. Un esempio significativo riguarda il diesel: i cinesi non hanno mai permesso la diffusione su larga scala di motori diesel, consapevoli dei loro limiti tecnologici e ambientali, che avevano già indotto l’industria europea a ricorrere a pratiche discutibili, come la manipolazione dei software di controllo delle emissioni.
Recentemente, una nuova legislazione proposta l’anno scorso introduce limiti di consumo basati sul peso del veicolo, costringendo ulteriormente i produttori a innovare per mantenersi competitivi.
Anche nel settore delle energie rinnovabili, la Cina ha ottenuto risultati straordinari, in particolare nel fotovoltaico. Grazie ai progressi tecnologici, le celle solari cinesi hanno raggiunto un’efficienza energetica reale del 25,5%, rendendo l’energia solare non solo più competitiva, ma anche più economica rispetto alle fonti fossili su scala globale.
L’ ELETTRICITÀ RINNOVABILE RENDE LA SPAGNA PIÙ COMPETITIVA DELL’ITALIA
Un dato lampante è il differenziale dei prezzi dell’elettricità al MW tra i paesi europei con una forte penetrazione di fonti rinnovabili nella rete. In Spagna, a marzo 2024, il prezzo dell’elettricità al MW si attestava intorno ai 10 euro, con una media di circa 24 euro per l’intero anno, grazie a una rete composta per il 90% da rinnovabili. Questo si confronta con gli 88 euro per MW medi registrati in Italia, dove la dipendenza dal gas è ancora predominante. Il vantaggio economico di produrre in Spagna è evidente, come dimostra il caso di Arcelor Mittal, che concentra lì i propri sforzi per l’elettrificazione della produzione di acciaio, a differenza dell’Italia.
La competitività italiana è ulteriormente penalizzata da una bolletta energetica annuale legata all’importazione di fonti fossili che ammonta a 100 miliardi di euro, cui si aggiungono oltre 20 miliardi di sussidi alle fonti fossili, cifre che superano il valore di una legge finanziaria.
IN CINA LA COMPETIZIONE È SPIETATA (E ABBASSA I COSTI DI PRODUZIONE)
Parallelamente, la competizione interna tra i produttori in Cina si dimostra spietata. Nel settore dei veicoli elettrici, il numero di produttori è passato da oltre 480 nel 2018 a circa 50 attuali. Questa selezione naturale ha contribuito a ridurre i costi e a stimolare un’accelerazione dell’innovazione, consolidando il vantaggio competitivo cinese sul mercato globale.
In Cina, ogni volta che la produzione di veicoli elettrici raddoppia, i costi di produzione diminuiscono di oltre il 20%, grazie alla scala industriale ormai consolidata. Questo effetto di scala è stato ulteriormente potenziato da una legislazione che prevede incentivi fiscali basati sui risultati climatici e ambientali, applicati sia ai produttori nazionali che alle case straniere.
Si vuole rendere l’auto elettrica accessibile ai consumatori europei? Una soluzione concreta sarebbe attirare i produttori cinesi a stabilire impianti in Europa, adottando un modello di gestione degli ecosistemi di innovazione e politiche industriali avanzate. L’Ungheria, ad esempio, ha già intrapreso questa strada: il governo di Viktor Orbán si sta posizionando come uno dei principali futuri cluster per la produzione automotive, grazie a un approccio mirato che integra incentivi e politiche favorevoli all’attrazione di investimenti stranieri.
L’EUROPA DIPENDE (ANCORA TROPPO) DAI FOSSILI
Nonostante il forte impegno dell’Europa nel promuovere le energie rinnovabili, i costi energetici rimangono significativamente più elevati rispetto ad altre grandi economie globali. Questa situazione è aggravata dal peso della dipendenza dalle importazioni di fonti fossili, un fattore che rischia di diventare ancora più critico con le decisioni della nuova amministrazione statunitense.
In Europa, il costo del gas naturale è 4-5 volte superiore rispetto agli Stati Uniti, mentre quello dell’elettricità è 2-3 volte maggiore. Questa disparità deriva, da un lato, dalla diversa integrazione delle rinnovabili e delle fonti a bassa intensità di carbonio nelle reti nazionali e, dall’altro, da regole di mercato che continuano a privilegiare le fonti fossili. Ad esempio, molti sussidi e strutture tariffarie sono ancora sbilanciati a favore delle fonti tradizionali, ostacolando il pieno sviluppo delle energie rinnovabili.
Questo divario di costo rappresenta una sfida cruciale per la competitività delle industrie europee. Tuttavia, non è l’unico fattore determinante.
Nel settore dell’automotive, i modelli di valorizzazione dei rendimenti finanziari sul breve periodo e della conservazione degli asset industriali hanno pesato sulla scarsa propensione delle case ad investire per l’innovazione.
L’ALLERTA DI DRAGHI: SERVONO REGOLE NUOVE
Nota il Rapporto Draghi che, sebbene a medio termine la transizione verso energie rinnovabili potrà abbassare i costi e aumentare l’autonomia strategica ed economica della UE, nel breve periodo le pressioni economiche potrebbero rallentare la crescita industriale se non viene attuato un piano efficace per trasferire i benefici della decarbonizzazione agli utenti finali, alle imprese industriali e ai cittadini.
IL PROGRAMMA DELLA SECONDA COMMISSIONE VON DER LEYEN
In risposta alle difficoltà economiche e industriali, la Commissione Europea sta lavorando a una serie di misure legislative e strumenti di intervento da attuare nei primi 100 giorni del secondo mandato di Ursula von der Leyen. Queste iniziative ricadono sotto la competenza della Vicepresidente Esecutiva Teresa Ribeira, la nuova Commissaria per la Clean, Just and Competitive Transition.
Nel settore delle batterie, i portavoce della Commissione hanno sottolineato la necessità di adottare strumenti multipli per superare le barriere economiche. A tal fine, la Commissione continuerà a utilizzare gli strumenti esistenti ed esplorerà nuove strade, anche a breve termine, per affrontare gli ostacoli alla crescita industriale su larga scala.
Inoltre, la Commissione ha posto l’accento sui progetti di successo che verranno finanziati dal Fondo Europeo per l’Innovazione, uno degli strumenti destinati a stimolare l’azione delle imprese europee. Tali progetti dovranno rispettare specifici criteri di resilienza, concentrandosi sul supporto all’ecosistema europeo delle batterie, comprese le aziende che forniscono componenti e macchinari per la produzione. In particolare, i progetti che riducono la dipendenza dalla Cina per materiali critici, come quelli necessari per la produzione di catodi e anodi, riceveranno punteggi più alti durante la valutazione delle domande di finanziamento.
Su questo punto, rileva Maurizio Maggiore, ex funzionario della Commissione che ha dedicato anni alla ricerca nel settore automotive e alla legislazione sugli standard tecnici. In un recente convegno a Napoli sulla supply chain delle batterie, Maggiore ha suggerito che probabilmente non sia vantaggioso rincorrere la produzione delle tecnologie attuali, sulle quali l’Europa ha accumulato un ritardo notevole. Invece, ha proposto di concentrare gli sforzi sulle batterie a stato solido e su altre nuove tecnologie per ridurre lo svantaggio competitivo, ormai difficile da recuperare sulle batterie agli ioni di litio.
Oltre al miliardo di euro destinato alle batterie, la Commissione Europea ha messo a disposizione altri 2,4 miliardi di euro per finanziare progetti innovativi in settori cruciali come le energie rinnovabili, l’efficienza energetica, la cattura e lo stoccaggio del carbonio e le tecnologie a basse emissioni.
La Commissione ha inoltre annunciato una novità significativa: per la prima volta, gli Stati membri avranno la possibilità di fornire sostegno finanziario extra per i progetti, il che consentirà loro di sfruttare un processo di valutazione semplificato e di beneficiare dell’approvazione accelerata degli aiuti di Stato. Questa misura è pensata per facilitare l’accesso a finanziamenti per iniziative strategiche che contribuiscano alla transizione verde, rendendo più agili e reattivi i processi di approvazione e implementazione dei progetti.
DECARBONIZZAZIONE E COMPETITIVITÀ
Il Rapporto Draghi mette in evidenza che, sebbene l’Europa stia puntando a raggiungere ambiziosi obiettivi climatici, la decarbonizzazione potrebbe rappresentare una minaccia per la competitività del continente se non verranno adottate politiche coerenti e coordinate. Il decoupling delle politiche energetiche e industriali, infatti, potrebbe compromettere il successo della transizione verde se non si gestisce correttamente il passaggio dai combustibili fossili alle energie rinnovabili.
Il Rapporto sottolinea che l’Europa dovrà aumentare la propria produttività e riformare il mercato dei capitali per finanziare gli enormi investimenti necessari alla trasformazione dell’economia. Sebbene la transizione verso fonti energetiche pulite sia fondamentale, essa richiederà un finanziamento pubblico e privato strategico, specialmente per tecnologie realmente innovative (next generation), dove l’Europa ha ancora un vantaggio competitivo. Tuttavia, il Rapporto chiarisce che investire in settori dove l’Europa ha accumulato un ritardo di dieci anni non sarà un uso efficiente delle risorse disponibili.
In merito alla semplificazione necessaria, il Rapporto non fa riferimento tanto a una compressione delle norme tecnico-ambientali, che invece funzionano come driver di innovazione verde e aumento della produttività. Piuttosto, il focus deve essere sulla semplificazione dei processi burocratici che regolano il funzionamento delle amministrazioni pubbliche, ancora troppo farraginose e incapaci di utilizzare in modo ottimale le risorse già disponibili.
MANCANO LE PERSONE E LE COMPETENZE
Questa è la sfida posta dal Rapporto Draghi, che va oltre la narrativa dominante in Italia. I successi di paesi come Spagna, Grecia e Portogallo, vicini mediterranei dell’Italia, che stanno migliorando la competitività industriale ed economica con un’applicazione più coerente delle politiche di transizione, parlano da soli.
Uno dei punti cruciali, nota ancora il rapporto Draghi, riguarda poi la carenza di forza lavoro qualificata e di una popolazione in declino. Si parla di autonomia strategica e di decuplicare la manifattura ad alta tecnologia in Europa. Da chiedersi dove sia la forza lavoro per farlo. Prendiamo il solo dato dei dottorati nei settori STEM (Scienza, Tecnologia, Ingegneria e Matematica). La Cina ne sfornerà 77.000 nel 2025. Gli Stati Uniti circa 40.000. L’Europa, molti di meno. Una lacuna formativa che rappresenta una sfida per la competitività futura dei sistemi occidentali. Il sistema educativo europeo, pur garantendo per anni alti livelli di istruzione, non riesce a produrre un numero sufficiente di professionisti qualificati nei settori chiave per l’innovazione e la crescita tecnologica. Ancora peggio, le competenze di base linguistiche e matematiche sono in costante declino, come evidenziato dalle rilevazioni internazionali. L’incapacità di comprensione dei fenomeni è un dato diffuso tra la popolazione generale in Italia, con fenomeni importanti, ad esempio, di analfabetismo funzionale. La presenza di laureati in ingegneria e materie tecniche nei nostri parlamenti e centri di governo è bassissima. Impietoso il paragone con i curricula dei tecnocrati cinesi. È chiaro che l’autonomia e la capacità di giudizio delle nostre classi dirigenti di fronte a scelte tecnologiche siano molto limitate. Un’ignoranza che paghiamo cara anche nella diffusione di disinformazione, sia sulla scienza che sulle scelte tecnologiche e industriali.