In questa guerra commerciale, Bernard Arnault non sta osservando dal basso della trincea: l’uomo più ricco d’Europa ha moltiplicato i contatti con le capitali europee – incluse Berlino e Roma – e con Washington per scongiurare una guerra commerciale che colpirebbe il lusso e, soprattutto, vini e spiriti europei. La chiave sta nell’acronimo del suo gruppo, Lvmh: Lv sta per Louis Vuitton, ma racchiude anche Bulgari, Christian Dior, Tiffany, Celine, Loewe, Kenzo, Givenchy, Fendi, Emilio Pucci, Marc Jacobs, Berluti, Loro Piana, Rimowa e Patou. Mh sta per Moët Hennessy, ovvero lo champagne e il cognac più venduti al mondo, e poi etichette come Veuve Clicquot, Ruinart, Dom Pérignon, Armand de Brignac e Krug, solo per citare le più famose.
I rapporti personali con Donald Trump sono ottimi: Arnault e la sua famiglia erano in prima fila all’insediamento presidenziale di gennaio. Con il figlio Alexander, al vertice di Tiffany, era nello Studio Ovale il 6 maggio per l’incontro con la Fifa. In parallelo, ha annunciato un secondo stabilimento Louis Vuitton in Texas entro il 2027: un segnale politico‑industriale che nella precedente stagione di dazi contribuì a tenere al riparo alcuni segmenti del gruppo, come ha raccontato il Wall Street Journal.
La “nebbia” dei dazi: cosa succede da venerdì 1° agosto
Dopo l’intesa politico‑commerciale Ue‑Usa, resta un’aliquota di base del 15% sulla gran parte delle merci europee in arrivo negli Stati Uniti. Le deroghe già confermate riguardano gli aeromobili e i relativi componenti, alcune materie prime, prodotti chimici, farmaceutici, mentre vini e spiriti non compaiono tra le esenzioni automatiche. Washington lascia intendere che non c’è un taglio imminente e che il capitolo alcolici verrà affrontato in un tavolo agricolo dedicato; nel frattempo, se non ci saranno sorprese, da venerdì 1° agosto scatterà il 15%.
La posta in gioco per Parigi: champagne e cognac
La Francia spinge per escludere champagne, vini e superalcolici dalla nuova aliquota. È il Paese europeo più esposto: nel 2024 ha esportato extra‑Ue 12,1 miliardi di euro di alcolici – circa il 41% del totale dell’Unione – per due terzi vino e per il resto distillati, con il cognac in testa; quasi un terzo delle spedizioni francesi va negli Usa. Arnault in un editoriale su Les Echos ha scritto che l’inclusione di vini e superalcolici tra i prodotti soggetti a dazi sarebbe “dannosa” e va sanata al più presto.
Il “piano Arnault”: zero dazi sugli spirits, sconto sui vini
Bruxelles – sostenuta dai campioni del settore capeggiati da Arnault – punta a ripristinare lo status pre‑dazi: azzerare i dazi sui distillati e, per il vino, riportare l’aliquota al livello di nazione più favorita (circa 6‑7%) invece del 15%. I colloqui sono avanzano, ma tutto dipende dalla Casa Bianca. Nel frattempo, le associazioni di settore avvertono che un 15% sui vini sarebbe “dirompente”, anche perché competitor come Argentina, Australia, Cile e Nuova Zelanda affronterebbero un’aliquota piatta del 10%: fra cambio e dazi, l’impatto sui conti europei può sfiorare il 30%.
Dove entra l’Italia: rischi e opportunità
L’Italia è il secondo esportatore UE di alcolici e ha appoggiato Parigi nella richiesta di carve‑out: nel 2024 ha spedito extra‑UE circa 6 miliardi di euro di prodotti alcolici. Un accordo “zero‑per‑zero” sugli spirits aiuterebbe anche i distillati italiani – amari, grappa, liquori – riportandoli alle condizioni ante‑dazi e ridando slancio in un mercato, quello statunitense, ad altissimo potenziale. Per il vino, un rientro al 6‑7% invece del 15% sarebbe decisivo per tutelare la competitività di Prosecco, rossi Doc/Docg e bianchi italiani rispetto ai concorrenti del Nuovo Mondo. Se passasse l’architettura promossa da Arnault, l’Italia ne trarrebbe un vantaggio quasi speculare alla Francia, specie sui segmenti “premium‑value” dove la forza del brand permette di assorbire un’aliquota residua senza distruggere la domanda.
Geopolitica del lusso: una strategia replicabile
Il mix tra lobbying politico e investimenti manifatturieri negli Usa (nuova fabbrica in Texas) è una strategia che parla anche all’Italia: ancorare parte della catena del valore al mercato americano – senza snaturare le denominazioni di origine, che non sono delocalizzabili – crea capitale politico e margine negoziale. La lezione per Roma e per i campioni nazionali del wine & spirits è duplice: agire a livello Ue con una voce italiana ben udibile sul dossier dazi; rafforzare il presidio negli Stati Uniti con investimenti commerciali, logistica e comunicazione per monetizzare eventuali esenzioni.
Cosa guardare nelle prossime ore
Il punto chiave è il testo congiunto Ue‑Usa atteso a ridosso dell’entrata in vigore dei dazi: capiremo se ci sarà una corsia preferenziale per gli spirits (e, in seconda battuta, per i vini). Dalla Casa Bianca, per ora, i segnali sono di prudenza: nessuna riduzione imminente, con rinvio al tavolo agricolo. L’industria, da Parigi a Roma, continua a lavorare per evitare il peggio.