L’Italia del vino affronta i dazi di Trump

Tra i padiglioni di Vinitaly, il settore vinicolo italiano si confronta con i dazi Usa: l’analisi di Giuseppe Di Gioia (ColleMassari)
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Vino

I corridoi affollati di Vinitaly profumano di promesse e fermento, ma tra un calice di Brunello e un assaggio di Vermentino, il tema che serpeggia tra gli stand è più amaro del miglior rosso barricato: i dazi al 20% imposti dagli Stati Uniti sul vino europeo, annunciati il 2 aprile dal presidente Donald Trump. In un mercato dove un quarto dell’export vinicolo italiano ha come destinazione proprio gli Usa, la misura rischia di cambiare per sempre la geografia del nostro vino.

E mentre i buyer americani confermano in massa la loro presenza a Vinitaly – un dato incoraggiante in mezzo alla tempesta – i produttori guardano al futuro con un misto di realismo, strategia e un pizzico di nervi saldi. Tra questi, uno dei nomi di punta è ColleMassari Wine Estates, realtà toscana che fa del terroir e della sostenibilità i suoi vessilli.

Dazi al 20%: un colpo alla fiducia, non solo al bilancio

“Sicuramente l’annuncio dei dazi a monte dell’inizio dell’evento non ha contribuito allo stato d’animo degli operatori del settore”, afferma Giuseppe Di Gioia, Ceo di ColleMassari. “Quello delle tariffe è il tema più dibattuto in questi giorni del Vinitaly, sia all’interno degli stand che nei numerosi workshop”. La tensione si respira ovunque, ma non è rassegnazione: “Noi, come azienda, siamo fiduciosi della possibilità di un ridimensionamento del problema, come necessaria conseguenza ai segnali che i mercati azionari stanno dando dopo la conferma del 2 aprile”.

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Giuseppe Di Gioia, Ceo di ColleMassari Wine Estates

La misura, che impatta direttamente su un export di 2 miliardi annui verso gli Stati Uniti, ha scosso l’intero comparto agroalimentare. L’Italia, prima esportatrice mondiale di vino in valore assoluto, vede nel mercato americano un pilastro strategico, non solo per la quantità ma per la visibilità del brand “vino italiano” nel mondo.

E proprio questa centralità rischia di diventare un boomerang. “Le nostre vendite verso il mercato statunitense valgono poco meno del 15% del business complessivo”, conferma Di Gioia. “La nostra volontà è mantenere saldo la fiducia sul mantenimento del business su quel mercato, ma questo sarà possibile solo assorbendo il dazio in modo condiviso con il nostro partner commerciale». La parola d’ordine, dunque, è collaborazione. In un contesto dove il prezzo al dettaglio potrebbe lievitare ben oltre il 20% a causa della struttura distributiva americana (il cosiddetto “three-tier system”: importatori o produttori, distributori e rivenditori), ogni euro conta.

Fine wines vs popular

Tra i più colpiti dai dazi ci sono i vini cosiddetti “popular”, ovvero quelli venduti negli Usa a un prezzo medio di poco superiore ai 4 euro al litro. L’80% delle bottiglie italiane esportate negli Stati Uniti rientra in questa fascia. Ma cosa accade alle etichette di fascia medio-alta, come quelle di ColleMassari, che costruiscono la propria identità sulla qualità, il racconto e la fedeltà al territorio?

“Sicuramente i fine wines, che catturano l’essenza del territorio, la sua storia, integrità e tradizione, saranno più tutelati rispetto ai posizionamenti più mainstream”, osserva Di Gioia. Tuttavia, avverte, nessuno può dirsi al riparo: “Nell’eventualità di un ribaltamento integrale dei dazi sul consumatore finale, l’effetto moltiplicatore dei prezzi sarebbe ben superiore al 20% a causa del sistema di distribuzione americano”.

Questo significa che anche chi lavora con etichette da 20, 30 o 50 euro rischia di uscire dai radar di ristoranti e wine bar americani, già sotto pressione per la contrazione dei consumi e la concorrenza dei produttori locali, australiani e cileni.

Eppure, proprio nei segmenti premium si intravede un margine di manovra. L’unicità del prodotto, la narrazione autentica del territorio, la riconoscibilità stilistica possono rappresentare un’arma competitiva in grado di giustificare un prezzo maggiore. A patto, però, di rafforzare ulteriormente la filiera comunicativa, commerciale e distributiva. Una sfida titanica in un momento in cui l’incertezza economica globale chiede strategie snelle, flessibili e lungimiranti.

L’Unione europea alla prova del vino

In un contesto così complesso, il ruolo dell’Unione europea appare più che mai decisivo. “Le istituzioni si stanno muovendo dando informazioni puntuali al sistema produttivo”, osserva Di Gioia. Ma serve di più: “L’Unione Europea dovrà agire compatta, cercando di evitare che singoli Paesi attuino azioni individuali per ottenere tornaconti di breve periodo”.

L’appello non è solo politico, ma anche culturale. Il vino, troppo spesso relegato a settore agricolo o di nicchia, è in realtà un asset strategico comparabile all’industria dell’auto o a quella farmaceutica: genera valore, occupazione, esportazioni, immagine-paese. Serve una visione industriale del vino europeo, capace di tutelare l’origine, sostenere la filiera e agire sui tavoli diplomatici con la stessa determinazione riservata ad altri comparti.

Vinitaly, in questo senso, non è solo una vetrina: è una piattaforma politica. “Quello che ci si auspica non è un atteggiamento di favore verso l’Italia, bensì nei confronti dell’intera produzione dell’Unione Europea”, ribadisce il Ceo. E i segnali che arrivano da Bruxelles, seppur cauti, sembrano andare in quella direzione, con il pressing di Tajani per escludere gli alcolici dal tavolo delle rappresaglie commerciali.

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(Ipa/Fotogramma)

A rischio non solo l’economia, ma l’identità

Uno degli aspetti più discussi nelle ultime settimane è il potenziale impatto dei dazi sulla ristorazione italoamericana. “Il consumo dei vini importati è pari al 30% di quello complessivo. Di questo 30%, il vino italiano vale circa un terzo”, sottolinea Di Gioia. Ma nelle cucine e nelle cantine dei ristoranti italiani d’America, i numeri cambiano: l’80% dei prodotti arriva dal Belpaese.

I ristoratori temono chiusure, riduzione dei menu, perdita di identità. “Non vedo un attacco al Made in Italy, ma una politica di tentata protezione della produzione locale a discapito di tutta la ristorazione etnica”, commenta Di Gioia. Un gioco a somma zero, insomma, dove a perdere non è solo il produttore europeo, ma anche il consumatore americano e l’intero ecosistema culturale costruito intorno all’eccellenza alimentare.

Il rischio vero è che il vino italiano sparisca dai tavoli americani non per mancanza di desiderio, ma per inaccessibilità. E con esso una parte di quell’immaginario collettivo che da decenni alimenta il soft power italiano nel mondo. In questo contesto, la voce dei produttori, unita a quella dei ristoratori e degli importatori americani, può diventare una forza di pressione capace di invertire la rotta.

I nuovi orizzonti del vino italiano

E mentre l’incertezza scuote le certezze dell’export verso gli Stati Uniti, molti produttori iniziano a guardare oltre. Asia, Africa, Paesi del Golfo diventano nomi ricorrenti nei discorsi tra stand e sale conferenze. Ma si tratta davvero di alternative concrete o solo di scenari esotici?

“L’ottica di esplorazione di nuovi mercati potenziali contraddistingue da sempre la nostra politica commerciale”, spiega Di Gioia. “Ritengo che l’affermazione di un brand passi attraverso una distribuzione variegata, puntuale e qualificata”. Dunque, non un ‘piano B’, ma un approccio strutturale alla diversificazione: essere presenti in mercati maturi come la Germania o il Regno Unito, ma anche piantare semi in Corea del Sud, Sudafrica o Emirati Arabi Uniti.

Tuttavia, entrare in nuovi mercati non è semplice: servono partner affidabili, conoscenza delle culture locali, pazienza e investimenti mirati. E se l’America resta un crocevia strategico anche per la costruzione dell’identità del brand, è evidente che il futuro del vino italiano non può poggiare su un solo pilastro.