Donald Trump ha assestato un colpo tremendo all’Inflation Reduction Act, il maxi-pacchetto da oltre 370 miliardi di dollari con cui Joe Biden nel 2022 ha innescato la rinascita cleantech negli Stati Uniti mobilitando altri 500 miliardi in fondi privati (e terrorizzando l’Ue con la prospettiva della deindustrializzazione). È bastato un ordine esecutivo a fine gennaio per congelare fondi massicci destinati al settore delle tecnologie e delle infrastrutture verdi, inclusi quasi 50 miliardi in prestiti già concordati e altri 280 per progetti in fase di valutazione.
Nel settore c’è chi ha premuto il freno. C’era l’italiana Prysmian tra le realtà che hanno cancellato lo sviluppo di progetti collegati alla generazione di energia pulita negli Stati Uniti. Altre hanno sospeso i propri piani, adottando un approccio di cauta osservazione per capire come riconfigurare gli sforzi (cattura e stoccaggio della CO2? Piccoli reattori nucleari?). E mentre in America si torna ad abbracciare gli idrocarburi c’è chi oltreoceano si è fregato le mani, pensando che fossero buone notizie per l’industria cleantech europea: mors tua, vita mea.
Ma non è proprio così. Eurofocus ha raggiunto Cecilia Trasi, analista di economia e politiche verdi presso l’autorevolissimo think tank Bruegel, per sottoporle la domanda: la mossa di Trump può avvantaggiare l’Ue nel campo delle tecnologie pulite? “Non dobbiamo illuderci che gli investimenti bloccati negli Usa si riverseranno automaticamente in Ue”, ha ribattuto. E la sua risposta ha tracciato una freccia che dalle coste dell’America e il cuore (sofferente) dei poli industriali europei è andata a indicare il convitato di pietra al tavolo del cleantech: la Cina.
Anzitutto, l’Ira è davvero morto?
“Sovvenzioni e prestiti sono stati congelati”, spiega Trasi, “ma i crediti d’imposta, che sono la parte più rilevante per le aziende, sono rimasti intatti. Questo perché solo il Congresso ha il potere di eliminarli”. Qui, oltre al fatto che i repubblicani controllano la Camera per un solo seggio, occorre ricordare che circa il 70% dei fondi Ira sono stati convogliati verso Stati a guida repubblicana, i quali hanno sviluppato progetti cleantech non per ideologia, ma per convenienza economica.
È vero che “il mix di fondi congelati ha rallentato investimenti che erano già in corso o programmati” (secondo il Financial Times la mossa ha messo in limbo circa 300 miliardi tra investimenti pubblici e privati), ma per ora sembra che lo sviluppo cleantech statunitense stia semplicemente rallentando, sottolinea l’esperta. “Le implicazioni dell’ordine esecutivo di Trump rimangono poco chiare, soprattutto perché ha eliminato le due agenzie che distribuivano i fondi e riconoscevano i crediti d’imposta – che sono assegnati ex post – ai produttori”. Dunque non si sa ancora se quei fondi siano effettivamente inaccessibili.
La posizione europea: opportunità o illusione?
In un’Ue che non fa che parlare di competitività, la conseguenza da trarre sembra essere chiara: viene meno un concorrente formidabile e aumentano le probabilità di tornare in testa nella corsa economica legata alla transizione. Ma l’invito di Trasi è al realismo: “Il fatto che alcune aziende possano ritirarsi dagli Stati Uniti non significa che verranno automaticamente a investire in Europa”, perché sono i problemi fondamentali del Vecchio continente a rappresentare un ostacolo agli investimenti esteri.
È vero che in due anni e mezzo l’effetto d’attrazione dell’Ira non ha portato alla deindustrializzazione dell’Ue (“anzi, ha permesso a certe aziende europee di ottenere sgravi ed espandere le proprie operazioni”). Ma è anche vero che la saga ha messo l’Europa di fronte a una duplice realtà. Da una parte la spinta protezionista degli Usa, tanto reale sotto Biden quanto sotto Trump; dall’altra la necessità di investimenti pubblici e forti incentivi per tenersi le aziende in casa, come del resto fanno le due superpotenze economiche più importanti.
A differenza degli Stati Uniti, ricchi di idrocarburi che l’amministrazione Trump intende sfruttare, il Vecchio continente che non ne ha “non può permettersi di dipendere dai combustibili fossili, data la sua situazione geopolitica ed economica” resa evidente dal ricatto energetico di Vladimir Putin. È uno dei motivi per cui, nel suo rapporto sulla competitività, Mario Draghi suggeriva di accelerare sul dispiegamento di energie rinnovabili. E l’Ue sembra intenzionata a mantenere la barra dritta in questo ambito.
La partita cleantech in Ue
Si guarda dunque al Clean Industrial Deal, il pacchetto con cui la Commissione di Ursula von der Leyen intende imprimere una spinta alle industrie cleantech – con i fondi inutilizzati del Next Generation EU che potrebbero essere riallocati a sostegno delle filiere in questione. L’economista di Bruegel vede “segnali positivi” nella Bussola per la competitività e nelle misure di semplificazione che saranno presentate a febbraio, evidenziando che gli strumenti come il programma InvestEU, affiancati a misure di riduzione del rischio della Banca europea per gli investimenti, possono favorire il finanziamento di aziende innovative.
La direzione, dunque, è tracciata. Ma serve guardare ai fondamentali, avverte Trasi. “Anzitutto l’Ue non ha ancora un quadro normativo simile all’Ira per stimolare la domanda interna”: oltre a mobilitare investimenti pubblici e privati per attirare i produttori serve rendere il mercato europeo più attraente per venderci i prodotti. Serve insomma un fattore di attrazione decisivo, un “vogliamo che tu produca qui e vogliamo renderti facile anche la vendita”, con l’obiettivo di favorire le economie di scala necessarie per competere a livello globale.
Il punto è che al momento misure del genere sono gestite a livello nazionale, continua l’economista. Ma per essere competitivi “è necessario operare su larga scala, non solo per attirare investimenti nella produzione ma anche per ampliare i mercati”, anzi il mercato, quello europeo. E rimangono i temi dei prezzi dell’elettricità alle stelle e della mancanza di infrastrutture per decarbonizzare: “vedremo cosa accadrà con i decreti di semplificazione e l’Affordable Energy Act, ma finché questi problemi persisteranno saranno barriere per la competitività europea”.
Perché serve citofonare a Pechino
In primis la Cina rappresenta “pressione, molta pressione” su mercato dell’Ue, spiega Trasi. “Domina già molte catene del valore delle tecnologie pulite, a partire dalle materie prime e passando per la raffinazione, per arrivare alle batterie e ai pannelli solari”. Questo non è certo avvenuto per caso, ma “grazie a un’attenta pianificazione di lungo termine che combina sussidi pubblici massicci e una competizione feroce nel mercato interno”. Risultato: Pechino è l’attore dominante nelle industrie cleantech e in alcuni ambiti sta allargando il distacco continuando a innovare.
L’asso nella manica del Dragone è appunto l’immensità del suo mercato nazionale, e questa combinazione accelera drasticamente tutto il processo, facendo emergere dei campioni già fatti e finiti – e temibili. “È un approccio completamente diverso per affrontare la transizione verde e implica pratiche differenti, considerate sleali secondo i nostri standard”. Da qui le reazioni difensive, come i dazi sulle auto elettriche. Campo dove Washington è stata molto più intransigente di Bruxelles imponendo dazi al 100% e chiudendo le porte del mercato statunitense ai player cinesi.
È proprio a questo protezionismo estremo che l’Ue può opporre un approccio pragmatico per recuperare competitività. “Continuare ad adottare barriere difensive senza affrontare le cause strutturali che favoriscono i concorrenti stranieri, come la Cina, rischia di rimandare il momento della crisi”, ragiona Trasi. L’esempio di come il Dragone abbia demolito i produttori di pannelli solari europei (con annessi correttivi deboli, imposti troppo tardi), è fresco nella memoria degli industriali Ue. Ma se Pechino è già leader nel settore delle auto elettriche “rappresenta un’opportunità di apprendimento per i produttori europei, che dovrebbero posizionarsi in modo da poter accedere alle tecnologie cinesi”.
Specchio riflesso
Sarebbe l’inverso di quanto fatto dalla Cina stessa per anni: imporre alle aziende occidentali interessate ad accedere al suo mercato la creazione di joint venture con partner locali e favorire così il trasferimento tecnologico. “Si potrebbe esplorare un modello simile in un contesto europeo, consentendo alle aziende cinesi di accedere al mercato dell’Ue, che risulta particolarmente attraente ora che quello statunitense è chiuso. Anche con i dazi il mercato europeo rimane valido per la Cina, che gioca sul medio-lungo termine e ha la capacità di sostenere le riduzioni di margine delle sue grandi aziende”, ragiona Trasi.
La discussione dovrebbe concentrarsi su quale “compromesso sia corretto” e “quale forma di accordo possa essere raggiunta” tra governo e aziende cinesi e le controparti europee, “in modo da mettere insieme questi interessi garantendo allo stesso tempo parità di condizioni e regole chiare. Questo permetterebbe ai consumatori europei di accedere a tecnologie pulite a costi più bassi”. Inutile dire che la soluzione può andare di traverso a diversi governi europei, specie dopo anni di irrigidimento rispetto a Pechino e attente valutazioni in materia di sicurezza economica. Ma l’invito dell’economista è al realismo. “La discussione sulla competitività non deve distogliere l’attenzione dall’urgenza di decarbonizzare rapidamente tutti i settori. Paure e pressioni da parte di Stati o aziende non devono impedire all’Ue di cogliere opportunità di collaborazione con quei partner che, più che minacciarci, stanno evidenziando le nostre debolezze strutturali. Serve mantenere la concentrazione sull’obiettivo finale, adottando un approccio pragmatico e flessibile nelle relazioni internazionali ed evitando visioni ideologiche. Come sta accadendo negli Stati Uniti”.