Sulla politica industriale l’Europa deve scegliere tra Trump e Draghi

Per il prof. Simoni (Luiss) l'Europa deve prepararsi a dazi e sussidi trumpiani. Mentre la transizione verde ha ormai potenti interessi in sua difesa e quindi non si fermerà
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Trump Draghi

Riceviamo e pubblichiamo dal professor Marco Simoni, Luiss Hub for New Industrial Policy – Università Luiss di Roma

L’elezione di Trump misurerà la capacità di visione economica, e dunque politica, delle leadership europee. Le azioni che ha promesso di intraprendere il nuovo presidente avranno un impatto certo sull’industria Europea. Negli ultimi anni la politica industriale è sembrata tornare protagonista, finora soprattutto nel senso di lasciare mano più libera agli stati membri – negli scorsi due anni per esempio la Germania ha varato oltre 88 miliardi in aiuti di Stato. Ma, come ha spiegato il rapporto Draghi, la politica industriale europea è ben lontana ancora dalla ambizione necessaria a rendere sostenibile il modello sociale europeo.

Guardiamo allora i macro-trend che sembrano emergere dalla nuova amministrazione USA e l’effetto che potranno avere sull’Unione Europea. In primo luogo, la nuova amministrazione USA promette maggiore isolazionismo economico. Che questo si materializzi attraverso dazi più elevati o maggiori sussidi alle industrie manifatturiere nazionali, o entrambi, l’impatto sarà significativo. Un’America più chiusa rende necessaria un’accelerazione delle politiche verso l’obiettivo dell’autonomia strategica dell’UE, che ha bisogno di due percorsi paralleli. Da un lato garantire l’approvvigionamento di materie prime critiche e dall’altro il drastico potenziamento delle capacità di innovazione.

Per raggiungere questo secondo obiettivo, l’UE deve accelerare i progetti d’interesse comune (IPCEI), aumentare gli investimenti pubblici e privati in R&S, ma soprattutto semplificare le normative per consentire una più rapida implementazione delle tecnologie innovative. Solo combinando catene di approvvigionamento sicure con innovazione made in Europe è possibile raggiungere una vera autonomia strategica nei settori industriali chiave.

Allo stesso tempo, un’America meno aperta probabilmente avrà l’effetto di ridurre le opportunità complessive di commercio globale e aumenterà dunque la necessità di un deciso rafforzamento del mercato unico. Gli interessi economici dell’Italia, e degli altri paesi fortemente esportatori, sono oggi più che mai in questa direzione.

In secondo luogo, è probabile che gli Stati Uniti rinuncino ai loro obiettivi climatici, dando carta bianca alla propria industria petrolifera nazionale e all’esplorazione all’estero. L’Europa rimarrà l’unico grande blocco (potenzialmente con Canada e Giappone) a esercitare una leadership globale sul clima, il che sarà probabilmente insufficiente a raggiungere gli obiettivi globali di contenimento dell’aumento delle temperature. Inoltre, la posizione americana rafforzerà gli interessi europei domestici contrari o scettici sulla transizione verde, che ne sarà almeno rallentata.

Tuttavia, vanno presi in considerazione due fattori. Primo, la maggior parte degli investimenti statunitensi sulle rinnovabili è prevista nelle contee a maggioranza trumpiana. Secondo, nei paesi europei, grandi investimenti per le rinnovabili (e lo stoccaggio) sono in gran parte già avviati. In altre parole: la transizione verde, diversamente da anche solo cinque anni fa, ha ora potenti interessi in sua difesa e quindi proseguirà.

In terzo luogo, il presidente Trump ha annunciato un minore impegno nella NATO. Mentre un completo ritiro sembra improbabile, possiamo aspettarci una ridotta presenza della difesa americana in Europa, proprio in un momento di aumentate tensioni e guerra aperta in Ucraina e Medio Oriente. Questo cambiamento porta naturalmente alla necessità di maggiori investimenti e maggior coordinamento della UE nella difesa comune. Tuttavia, non si tratta certo di una passeggiata. Come spiega Simon Faure in un recente saggio per il Luhnip (un hub di politica industriale alla Luiss di Roma), sebbene auspicabile da molti punti di vista, una più forte integrazione del complesso militare-industriale europeo richiede investimenti nell’ordine dei 100miliardi di dollari, nonché cambiamenti istituzionali – pensiamo a un Consiglio Difesa – e integrazione tecnologica non certo semplice tra le diverse aziende nazionali.

Alla luce di queste ampie nuove sfide, il recente rapporto Draghi sulla competitività assume un nuovo significato. La sua visione per il rinnovamento economico europeo va ora letta nel nuovo contesto geopolitico e non limitandosi a commentarne i dettagli, e comprendendo la sua valenza politica al di là dei dettagli economici.

Il rapporto sostiene un cambiamento trasformativo attraverso un’azione coordinata, inclusa l’emissione di debito comune europeo, ma si è parlato troppo di quest’ultimo che non è che solo uno degli strumenti necessari. Infatti rapporto sfida anche altri paradigmi consolidati, in particolare nella politica della concorrenza, e soprattutto sostiene l’idea che anziché rispondere con prudenza alle sfide attuali, l’Europa debba rispondere con un’ambiziosa espansione delle politiche e della cooperazione.

Più che una riedizione pigra della politica di investimenti pubblici o incentivi, il rapporto tratteggia nuovo paradigma di partnership pubblico-privato che accoglie la diversità dei capitalismi europei, trasformando quella che è sempre sembrata una debolezza in una potenziale fonte di vantaggio competitivo continentale. La potenzialità di questo approccio, specialmente nell’obiettivo di stimolare gli investimenti privati, è particolarmente preziosa ora se si vuole supportare la resilienza degli ecosistemi industriali nel contesto di un’America più chiusa e protezionista.

Nel complesso, il rapporto Draghi risponde alle preoccupazioni esistenti non promuovendo il protezionismo, ma chiedendo politiche europee più ampie e ambiziose.

Quindi, nel contesto delle nuove politiche americane, questo approccio assume ancora più chiaramente tutto il suo valore politico al di là dei tecnicismi economici e settoriali. Sostiene infatti che l’Europa deve rafforzare la sua capacità di agire in modo indipendente ma mantenendo il suo impegno per un mondo aperto e multilaterale: questa è la visione chiave. I prossimi mesi ci diranno se l’Europa sarà in grado di unirsi dietro una visione condivisa del suo futuro in un ordine globale in evoluzione, rafforzando così anche i suoi interessi economici, o se sarà una semplice follower degli attuali leader globali, muscolari e auto-riferiti.