Il mondo sta entrando in una nuova era, dominata dalle tecnologie più avanzate: oltre all’intelligenza artificiale generativa, sistemi quantistici, biotecnologie avanzate, automazione intelligente, nuove tecnologie energetiche e ambientali, materiali innovativi e infrastrutture digitali pervasive stanno già cambiando profondamente l’economia globale. E nonostante sia ben posizionata per competere, l’Unione europea sta arretrando inesorabilmente nella competizione. Questa la fotografia restituita dal nuovo rapporto strategico “High-Tech Economy: il nuovo ciclo competitivo globale” del Centro Economia Digitale, presentato oggi al Ministero dell’Economia, con la partecipazione del ministro Giancarlo Giorgetti, dal presidente del Ced e co-autore del rapporto Rosario Cerra.
Sono i numeri evidenziati dal rapporto a mappare una realtà allarmante: tra il 2018 e il 2022, la quota europea di valore aggiunto nei settori ad alta intensità tecnologica e di conoscenza è crollata dal 19,7% al 17% del totale mondiale, a vantaggio delle due superpotenze economiche rivali, Usa e Cina. Quello che nell’era del rapporto Draghi è diventato un ritornello quasi scontato torna a incarnarsi nei dati: nello stesso periodo Pechino ha consolidato la propria leadership, passando dal 23,6% al 27,5%, e anche Washington ha rafforzato il suo secondo posto raggiungendo il 26,1%. Dietro al riposizionamento statistico si cela un profondo riallineamento degli equilibri economici (e geopolitici) mondiali, dove il controllo delle tecnologie di frontiera determina non solo la crescita, ma anche la rilevanza internazionale, la capacità di influenzare standard, regolamentazioni e traiettorie tecnologiche future.
Un declino evitabile
La perdita di competitività Ue non è uniforme, rileva il rapporto, ma segue linee di frattura settoriali. È nella manifattura ad alta tecnologia, dove si concentrano produzioni strategiche come semiconduttori, dispositivi avanzati e componenti elettronici, che il Vecchio continente ha subito il colpo più duro: la Cina ha superato sia l’Ue che gli Usa già dal 2012, diventando la fabbrica tecnologica del pianeta. Il quadro cambia quando si guarda ai servizi high-tech, dove dominano piattaforme digitali, cloud computing, IA e software avanzato: qui l’Europa mantiene ancora la seconda posizione globale. Tuttavia, gli Usa detengono una leadership schiacciante con il 39,7% del mercato mondiale, anche a scapito della quota europea, scivolata dal 21,8% al 19,7% tra 2018 e 2022.
L’analisi econometrica condotta dal Ced su 14 Paesi Ocse, di cui sette europei, ha il merito di demolire i luoghi comuni rispetto alla pericolosità degli investimenti ad alta tecnologia rispetto a quelli tradizionali. Nei Paesi europei ogni dollaro di valore aggiunto generato nei settori high-tech produce un moltiplicatore medio di 3,9 dollari di pil nell’arco di tre anni, contro appena 1,28 dollari nei settori a bassa intensità tecnologica. Non si tratta nemmeno di effetti temporanei destinati a dissolversi rapidamente: mentre nei comparti low-tech gli impatti tendono a ridursi nel tempo, nei settori ad alta tecnologia i valori del moltiplicatore crescono negli anni successivi allo shock iniziale, generando benefici persistenti e duraturi.
L’impatto sulla produttività è ancora più marcato. Un’iniezione di 10 miliardi di dollari nel valore aggiunto dei settori high-tech determina, nei Paesi europei analizzati, un incremento della produttività del lavoro dello 0,59% nei tre anni successivi, contro un misero 0,04% nei settori a minore intensità tecnologica. In un’epoca in cui la stagnazione della produttività rappresenta il principale freno alla crescita europea, questi numeri dovrebbero costituire un’indicazione chiara su dove concentrare gli investimenti strategici. Sul fronte occupazionale la stessa spinta sullo stesso periodo genera mediamente 161.000 nuovi posti di lavoro, contro 47.000 nei settori low-tech. In altre parole, le nuove tecnologie non sostituiscono il lavoro: al contrario, l’espansione delle attività economiche ad alta tecnologia produce un incremento netto e duraturo dell’occupazione.
Il cambio di passo necessario
Il rapporto Ced prosegue identificando il peccato originale dell’approccio europeo: essersi concentrati quasi esclusivamente sul lato dell’offerta, privilegiando il sostegno alla ricerca scientifica attraverso finanziamenti pubblici secondo un modello “technology-push”. Mancano gli effetti attesi in termini di leadership tecnologica e di trasformazione produttiva: la frammentazione degli ecosistemi innovativi, l’insufficiente coordinamento tra politiche della ricerca e industriali, e soprattutto la debolezza della domanda di tecnologie dal settore produttivo hanno limitato drasticamente l’efficacia degli interventi. Mentre l’Europa finanziava laboratori sperando che le scoperte si trasformassero automaticamente in prodotti commerciali, Stati Uniti e Cina costruivano ecosistemi integrati dove ricerca, mercato e politiche industriali agivano in sinergia.
L’incapacità europea di competere deriva anche da vincoli strutturali che paralizzano l’azione pubblica: le regole fiscali dell’Unione, concepite per garantire stabilità monetaria e controllo del debito, non contemplano adeguatamente la necessità di investimenti massicci e prolungati in tecnologie, infrastrutture digitali e capitale umano. I vincoli agli aiuti di Stato, nati per preservare la concorrenza nel mercato unico, impediscono agli Stati membri di sostenere campioni nazionali in settori strategici, lasciando campo libero a competitor cinesi e americani che beneficiano di sostegni pubblici massicci. Il documento rileva come la mancata istituzione di un Fondo di Sovranità europeo riflette l’incapacità di pensare l’Unione come soggetto strategico unitario, e che anche le iniziative ambiziose come i progetti di interesse comune (Ipcei) sono limitati da eccesso di burocrazia, lentezza decisionale e frammentazione delle competenze: oltreoceano e nell’estremo Oriente, le capitali mobilitano in poche settimane risorse enormi per progetti strategici.
Di fronte a questa situazione, il rapporto propone un cambio di paradigma radicale: abbandonare l’approccio orientato all’offerta per abbracciare politiche centrate sulla stimolazione della domanda di tecnologie. Sul lato privato, questo significa incentivi fiscali all’adozione tecnologica, standard comuni europei che creino economie di scala, e investimenti massicci in formazione per colmare il divario di competenze digitali. Sul lato pubblico, la leva più potente ma sottoutilizzata è quella degli appalti innovativi: con una spesa pubblica che supera il 14% del pil, questi possono alimentare una domanda qualificata capace di sostenere campioni tecnologici europei. E invece di acquistare soluzioni già presenti sul mercato, spesso fornite da giganti extraeuropei, le amministrazioni dovrebbero lanciare “missioni tecnologiche” definite che stimolino innovazioni in grado di rispondere a bisogni collettivi specifici, dalla digitalizzazione sanitaria alla transizione energetica. Passando, naturalmente, dalla rapida digitalizzazione delle pubbliche amministrazioni stesse.
Le fondamenta: infrastrutture e talenti
Nessuna economia high-tech può prosperare senza infrastrutture adeguate, e l’Europa sconta ritardi preoccupanti su più fronti. Le reti digitali ad altissima capacità, indispensabili per IA, cloud computing e internet of things coprono ancora in modo disomogeneo il territorio Ue, con divari marcati tra Nord e Sud, aree urbane e zone rurali. Ma le infrastrutture della High-Tech Economy non sono solo digitali: l’energia rappresenta il vero collo di bottiglia della transizione tecnologica, con data center, impianti di semiconduttori e fabbriche automatizzate che richiedono quantità crescenti di elettricità pulita, affidabile e a costo competitivo. E l’Ue oggi fronteggia costi energetici tra i più alti al mondo, un handicap mortale nella competizione globale. Il rapporto propone di riconsiderare il ruolo dell’energia nucleare, sia da fissione che da fusione, sviluppando un quadro normativo europeo coerente. Anche le infrastrutture di trasporto e logistica intelligente necessitano di ripensamento strategico: le reti ferroviarie ad alta velocità e i corridoi digitali che collegano cluster innovativi costituiscono condizioni abilitanti per quella circolazione di merci, conoscenze e persone che alimenta l’innovazione.
Sono appunto le persone a costituire l’altro pilastro su cui costruire una High-Tech Economy europea. Qui l’Ue parte con un doppio svantaggio: un sistema educativo spesso scollegato dalle esigenze del mercato del lavoro e una popolazione in rapido invecchiamento. Il divario di competenze digitali europeo non riguarda solo la capacità di usare strumenti tecnologici, ma competenze più profonde come pensiero computazionale, alfabetizzazione sui dati, comprensione degli algoritmi di intelligenza artificiale e capacità di interagire con sistemi automatizzati, che non possono essere relegate a corsi di formazione sporadici ma devono permeare l’intero sistema educativo, passando per la formazione professionale e il re-skilling continuo dei lavoratori.
Il rapporto evidenzia la necessità di maggiore integrazione tra scuola, università e imprese, superando il muro che separa mondo educativo e produttivo. Infine, formare talenti non basta se poi questi emigrano altrove: l’Europa deve diventare più attrattiva per i migliori cervelli globali, offrendo non solo salari competitivi ma anche un ecosistema stimolante, opportunità di crescita professionale e qualità della vita, per cui le politiche migratorie dovrebbero facilitare l’ingresso di lavoratori altamente qualificati, mentre quelle di genere dovrebbero favorire una maggiore partecipazione femminile ai settori scientifici, ancora drammaticamente sottorappresentata.
La strategia della “coopetizione tecnologica”
Di fronte allo strapotere tecnologico di Stati Uniti e Cina, sta all’Ue trovare la via di mezzo tra isolamento protezionistico e resa incondizionata, abbracciando quello che il rapporto definisce concetto di “sovranità tecnologica coopetitiva”, nella consapevolezza che in un mondo interconnesso, dove le catene del valore si estendono su scala planetaria, nessun Paese può essere completamente autosufficiente. Sovranità non implica dunque autarchia, ma capacità di scegliere consapevolmente con chi collaborare, su cosa e in quali condizioni, la base per una strategia strutturale, già esplorata nel rapporto Ced del 2024, in cui gli Stati competono per la leadership tecnologica ma collaborano in modo ponderato su tecnologie critiche, valutando sistematicamente rischi e opportunità.
In quest’ottica, l’alleanza transatlantica assume valore strategico rinnovato: Usa e Ue rappresentano partner complementari, con gli statunitensi che portano al tavolo leadership tecnologica e capacità di innovazione radicale, e gli europei che offrono un bacino di domanda avanzata, una base produttiva articolata e capacità di integrazione delle tecnologie nei sistemi industriali. La governance della coopetizione richiede strumenti concreti per valutare partnership internazionali, investimenti diretti esteri, procurement pubblico e collaborazioni di ricerca secondo il principio “aperti quanto possibile, chiusi quanto necessario”. Non tutti i settori tecnologici hanno la stessa rilevanza strategica e non tutte le collaborazioni presentano gli stessi rischi: occorre sviluppare capacità di discernimento che oggi l’Europa non possiede pienamente, oscillando tra ingenuità e paranoia.
Oggi più che mai sono le materie prime a illustrare i rischi posti dalla dipendenza estrema. L’accesso a quelle critiche come terre rare, litio, cobalto e grafite (indispensabili per batterie), nonché prodotti come semiconduttori, pannelli solari e dispositivi elettronici, dipendono da Paesi, Cina in primis, con cui l’Ue ha rapporti complessi, e Pechino ha appena segnalato al mondo che intende usare le proprie esportazioni come leva geoeconomica. Per far fronte all’estrema vulnerabilità europea il rapporto identifica quattro linee d’azione: diversificazione delle fonti attraverso accordi con Paesi produttori alternativi, sviluppo di capacità di riciclo e circolarità per ridurre la dipendenza dalle importazioni primarie, innovazione tecnologica per trovare materiali sostitutivi o ridurre i consumi, e controllo di segmenti strategici della filiera produttiva attraverso investimenti diretti o partnership. Nella consapevolezza che non ci saranno risultati immediati, ma il pericolo dell’inazione è quello di lasciare in mano a Xi Jinping uno strumento capace di vanificare qualsiasi sforzo europeo di rafforzamento tecnologico.
